Che c’entra “La grande bellezza” con l’ultimo disco di Brunori Sas? Apparentemente nulla. Ma non è propriamente così. La critica, spesso feroce e ancora più spesso superficiale, è diventata l’esercizio più amato da chi ostenta la puzza sotto il naso. Radical snob e un po’ anche chic. E così si tende a rivendicare l’ascolto primigenio o la visione primigenia di quando il cantante o il regista non erano ancora nessuno (per il grande pubblico). L’oh di orrore nei confronti del mainstream è un urletto perfino petulante. Che “La grande bellezza” non sia il miglior film di Sorrentino può anche essere vero. Che si inorridisca perché ha fatto un film con Medusa e abbia vinto l’Oscar e non rimanga più nella ristretta nicchia degli adulatori della prima ora, fa un po’ ridere. Eccoci, quindi ai cantautori 2.0. Si portano dietro il peso e responsabilità di un nome perfino così altisonante se non evocativo per il ruolo che i cantautori hanno avuto nella storia della musica italiana, che si chiederebbe loro di fare (sempre) dischi indimenticabili e imprenscindibili. Non è così. Punto. Ma criticare come se si giocasse a freccette con un fantasmagorico bersaglio in cui compaiono le faccine di Brunori Sas, Dente e Le Luci della Centrale Elettrica, dovrebbe essere ormai fuori moda e un’operazione tra l’onanistico e l’autoreferenziale. Ok, questi tre dischi non cambieranno le nostre vite. Ma non abbiamo mai chiesto così tanto. E forse, gira e rigira, ce ne sono stati pochi che l’hanno fatto davvero. Tanto per intendersi, non esisterà un’altra “Linea gotica” e questo non ci vieta di guardare con un pizzico di nostalgia e malinconia a una stagione in cui tutto sembrava fantastico e possibile almeno per la cosiddetta o sedicente scena italiana. Però facendo i conti con quello che passa il convento ora, non ci si può lamentare. Brunori Sas è giunto al terzo disco che non sposta di molto le coordinate musicali dai precedenti, ma che ha un paio di pezzi che canticchiarli non è un’eresia e se il “Mambo reazionario” passa per radio, non c’è bisogno di gridare a quel vecchio concetto che una volta si riassumeva col ripetitivo e petulante idioma “si è imborghesito”. Se Vasco Brondi, Le Luci della Centrale Elettrica, mette la faccia nelle classifiche di vendita con un disco che sì, è diverso dai due precedenti, con meno testi e scenari apocalittici rispetto al passato e un impatto sonoro decisamente più pastoso e rumoroso, non c’è da scandalizzarsi. Non è detto che il monopolio dell’ascolto del Brondi ce l’abbiano solo quelli che fanno collezione di spillette sconosciute e che ascoltavano il Brondi prima che iniziasse a cantare. Come andrebbe letto con una lente diversa il pretenzioso (ma rischiare è un dovere, non si può sempre suonare clubbini) progetto di Dente di portare il tour nei teatri. Ecco, è sconfortante che la critica si riduca sempre più spesso a quell’afflato hipster che se un disco sfiora il mainstream o viene ascoltato da più di cento persone di quelle che lo ascoltavano dall’inizio, si esce fuori con la solita frasetta: “ma i primi album erano tutt’altra cosa”.