Non resta che attaccarsi al nazionalpopolare. E twittare. L’indie medio, quest’anno, non ha nemmeno un confortevole rifugio e non potrà dire: quelli lì li conoscevo prima di voi. Prima di Sanremo. Prima di tutto. Quando ancora registravano in bassa fedeltà per sentirsi davvero lo-fi. E non solo a parole. L’anno scorso l’unico squarcio indie del festival di Sanremo era rappresentato dai Perturbazione. E poi si sono viste come sono andate le cose. Il festival crea ma distrugge anche. E infatti i Perturbazione, come molte altre band indie prima di loro che avevano messo piede sul palco dell’Ariston, hanno subito un paio di defezioni. Non sono riusciti – pur con una canzone intelligente, il giusto pop – a superare l’asticella del post-fama festivaliera. Ma tant’è. Quest’anno tanto per capirsi, non ci si può attaccare a dei Marlene Kuntz, a degli Afterhours o a dei Subsonica o ancora al Moltheni ritornato nel frattempo Umberto Maria Giardini. Senza scomodare poi Elio e le Storie Tese, due volte passati per il festival, due volti diventati eroi prima ancora di iniziare anche per l’indie medio che sostiene di snobbare un po’ la kermesse. Si crogiola con le sue conoscenze acquisite in tanti anni di ascolto maniacale di ep a distribuzione ridotta e di letture millimetriche, con tanto di interpretazione al seguito, sulle biografie dei nostri eroi. No, quest’anno non ci sono eroi che hanno tradito, mandando in quel posto il passato indie per mettere la faccia (finta) sorridente o solo da schiaffoni in (mondo)visione. Quest’anno il festival, con buona pace dell’indie medio che un po’ farà sentire il suo dissenso su come il festival ricalchi in maniera perfetta il paese reale (non quello che cantarono gli Afterhours in un’edizione del festival di qualche anno fa), ricalcherà perfettamente il paese reale. E il paese reale non promette mai nulla di buono. Non c’è bisogno che insipidi ritornelli, ma in grado di contagiare orecchie e bocche, stiano lì a ricordarlo. Nazionalpopolare mai aggettivo fu più abusato e più sensato. Forse anche per provare a dare dignità a un aggettivo che voleva dire (e forse vuole dire ancora) qualcosa di dozzinale, un tanto al chilo, ma sicuramente efficace, come in quella trattoria dove mangi tanto, spendi poco e non badi alla qualità del piatto. E allora l’indie si adegua. Posa la sua borsetta piena di spillette di Bob Corn e di Offlaga Disco Pax sul tavolo, magari armeggia sullo smartphone o sul tablet per dileggiare chi si muove sul palco. E per dileggiare pure quei ritornelli che anche se non seguono più il vecchio schema cuore-amore, sono scontati come un piatto di penne alla vodka in un ristorante che si dà un po’ ancora delle arie ma che si accontenta di accontentare (ripetizione rafforzativa) il cliente medio. Beh, l’indie medio twitta, è social-furioso a colpi di hashtag che ricordano un po’ i testi di Dente dove l’abuso del calembour è direttamente proporzionale alla durata del pezzo. Trovate più o meno geniali, ok. Lasciando intendere un po’ quello che Nanni Moretti diceva in un suo vecchio film “siamo uguali ma diversi”. E quella diversità nel fare i conti col nazionalpopolare, un po’ con la puzzetta (legittimamente) sotto il naso, non ci assolve dalla banalità che, tanti giri di parole e invenzioni linguistiche, riportano alla ormai celebre tautologia. Sanremo è Sanremo. E bisognerà farsene una ragione. Quindi pop corn e birra e tutti davanti alla tv. Con o senza smartphone per twittare.