Sessantanove canzoni d’amore. Quel 69 numero palindromo vanificato dall’uscita in triplo disco, unico rammarico di Stephin Merrit, mente dei Magnetic Fields che ha concepito e costruito l’impresa musicale. Lui avrebbe voluto, per ovvie ragioni palindromiche, che i dischi fossero due. Se c’è un disco che ha qualcosa di mitologico nel mondo indie e probabilmente negli ultimi (quasi) quattro lustri, quel disco è “69 love songs”. Ok, sono passati diciotto anni da quel 1999 e non si può vivere di ricordi e l’effetto retromania anche nel circuito indie rischia di essere sempre più contagioso. E allora nel 2017 Stephin Merritt con i Magnetic Fields fa qualcosa di altrettanto straordinario che, magari visto il precedente, non ha l’unicità di “69 love songs”, ma è comunque qualcosa di epico. Cinque dischi come un memoir e cinquanta canzoni per raccontare i suoi 50 anni: dal 1966 al 2016. Propositi epici hanno sempre (s)mosso la vena creativa anche di genietti come Sufjan Stevens che si era messo in testa di fare un disco per ogni stato degli Stati Uniti. Impresa non riuscita, anche se i primi due dischi della (presunta) saga sono imperdibili e non solo per “Chicago”. Merritt invece è un testardo e ha una capacità, come in “50 song memoir” (questo il titolo del disco), di regalare una canzone diversa dall’altra in rapida successione, stimolando anche memoria e nostalgia, passando con nonchalance da Judy Garland a Jefferson Airplane, senza mai annoiare l’ascoltatore attento e coinvolgendo quello distratto. Ecco perché anche questo disco è qualcosa di epico.