Sì, il titolo migliore per questo post è proprio quello di un album di ormai una decina d’anni fa in cui la Gang (l’ho sempre chiamata così la creatura dei fratelli Severini, ma ci sono comunque buone alternative come: The Gang, il nome originale, e i Gang) suonava con La Macina nel disco in cui quel che un tempo veniva definito come combat-folk s’incrociava col folk della tradizione marchigiana (quello della Macina, appunto). Nel tempo e oltre, già. La Gang dopo quindici anni torna con un disco nuovo. Si intitola “Sangue e cenere” e c’è tutto quello che un fan della prima ora vorrebbe trovare in questo disco. Coerenza assoluta, testardaggine marchigiana (sono di Filottrano) e un concetto di indie che sì davvero potrebbe sembrare un po’ nostrano ma non è sicuramente di posa, è verace. D’altronde le spillette loro, le hanno sempre attaccate sulla tracolla della chitarra senza essere ossessionati né dalla bulimia della collezione né dall’esigenza di mostrarle. Ed erano spillette assai espressive. Non inutili orpelli.
Ecco, ho sempre evitato la retorica dei “duri e puri”, però nel loro caso si può fare anche un’eccezione. Col mondo discografico hanno litigato anche furiosamente per affermare le proprie idee. In quella magnifica stagione della speranza, datata quattro lustri fa, riuscirono anche ad affermarsi fuori dal circuito dei club e dei centri sociali in cui collezionavo anche centinaia di date in un anno, per arrivare perfino sulle Smemoranda che per chi ha ora più di trent’anni, erano allora anche senso di appartenenza a un determinato mondo, da farcire ovviamente con citazioni più o meno dotte. Ascoltare questo disco è come farsi prendere da piacevoli fitte al cuore. Il primo incontro con La Gang me lo ricordo ancora. Piazza di Serra de’ Conti, in provincia di Ancona. Estate, una leggera brezza collinare, e loro che armeggiavano con gli strumenti. Pronti per il concerto. A sedici anni, in quel periodo, l’infatuazione musicale poteva essere solo per i Nirvana, per il mito Cobain, o al massimo per qualche gruppo punk. “Ma questi erano punk prima di molti altri”. Disse uno che li conosceva bene. Quel punk che avrei scoperto, empiricamente, ascoltandoli dunque, in un accelerato romanzo di formazione musicale, che partiva e arrivava con i Clash per Marino e Sandro Severini. Però, la Gang allora era già alla trilogia del folk. Tre dischi tutti cantati in italiano, dopo aver chiuso con l’inglese, iniziata nel 1991 con “Le radici e le ali” e completata, soltanto un anno prima, con “Una volta per sempre”. C’era qualcosa oltre i Nirvana, anche d’italiano, anche se poteva sembrare anacronistico, anche se non suonava con il ritmo di quel tempo. Ma era anche un modo per raccontare la storia di questo paese e dei suoi infiniti misteri. E così per anni, io e i miei amici ci siamo presi in giro per quest’ossessione per la Gang che ci portava a vedere anche un paio di loro concerti al mese. Un rapporto di fiducia, non un’adorazione perché non erano rockstar. Ma una stima profonda, soprattutto quando ci imbattemmo (io e i miei amici) in Sandro, il chitarrista, il fratello di Marino, nel cinema di Senigallia a vedere “Dead Man” di Jim Jarmusch. Un paio di gomitate per sussurrare qualcosa come “Hai visto chi è?”. E non è che in sala ci fosse Billy Corgan. Ecco, tutto questo per dire che la stima nei confronti della Gang è stata sempre massima, anche quando ha provato, dopo la trilogia, a fare qualcosa di diverso, ma non di totalmente riuscito come “Fuori dal controllo”. Che però, si portava dietro una dichiarazione di Marino Severini alle riviste specializzate che ancora conservo calorosamente tra i ricordi. Contestualizzava in quel disco gli esempi mitici della religione, così come aveva provato a descriverli Pasolini, e infatti la Gang in quel album oltre a una canzone dedicata al subcomandante Marcos, piazzò una canzone ispirata a Santa Maria Goretti che poteva sembrare spiazzante ma non lo era. E il concetto delle radici e le ali era fortemente presente anche in quel lavoro: le radici della propria terra, tradizioni e leggende come quella del Bandito Trovarelli, e uno sguardo sempre aperto sul mondo. Ecco, altro che glocal. Di più. Ed ecco perché questo disco che arriva quindici anni dopo l’ultimo, acquista ancora di più valore. Perché questo disco la Gang ha deciso di farlo con il crowdfunding. In pochi mesi ha raccolto oltre 50mila euro, quasi dieci volte di più di quello che aveva chiesto sulla piattaforma Becrowdy. Anche questa volta una coerenza difficile da attaccare e intaccare. E per questo (e per molto altro) questo disco merita di essere ascoltato. Perché nasce ben ancorato, di nuovo, alle radici e a valori non negoziabili (ascoltate “Mare nostro”, ha anticipato in qualche maniera la preghiera laica di Erri De Luca). Tanto di cappello, dunque.