Se fosse solo una questione di numeri (tre dischi, un tour acustico nei teatri e uno spettacolo ancora nei teatri che non è fatto di solo “canzonette), la ditta di Brunori (come recita, appunto, la ragione sociale della band che si chiama Brunori Sas), sarebbe già vistosamente in utile. In fondo si sta parlando di lui, Dario Brunori, da appena sei anni. Ma qui non è solo questione di numeri. Con buona pace di chi ancora troverà il tempo e il fiato di gridargli o scrivergli “venduto” in nome di una purezza indie che non può e non deve giustificare alcunché. La parentesi va aperta e va immediatamente chiusa. Ma è necessaria. Quando la scorsa estate Brunori, con la sua band, decise di aprire i concerti di Ligabue; alcuni gridarono al tradimento. Al sottoscritto invece, rimase ancora più simpatico. Perché in fondo è un po’ troppo da nerd continuare a crogiolarsi su una scena indie che spesso ci si crea ad arte, seguendo i pochi gusti, e mostrando sprezzanti un disprezzo per ciò che vi ruota attorno. In fondo, le mani bisognerà pure sporcarsele. E il mainstream non è così cattivo come sembra. Basta saperci stare. Guardate così, giusto per dire, gli Elio e Le Storie Tese. Alla storia dei compromessi da fare o da realizzare quando d’incanto si entra nel famigerato mainstream, ormai non ci crede (quasi) più nessuno. E per chiudere definitivamente questa parentesi, occorrerebbe aggiungere che anche quando i Csi di Giovanni Lindo Ferretti decisero di aprire i concerti di Jovanotti, con la solita sterile polemica d’accompagno, ero assai felice. E sollevato. E non per una questione speranzosa di contagio.
Ora, tornando a Brunori, lui rimette piede a teatro. Con tutti i rischi del caso. Non essendo il suo, un progetto, questa volta, propriamente acustico. E quando fa capolino la parola “monologhi” nella presentazione dello spettacolo “Brunori srl”, partito giovedì scorso dal teatro Rossini di Pesaro, il pensiero corre via e schizza veloce verso quel neologismo, inventato almeno due-tre lustri fa, che si chiama teatro-canzone e che si materializza in Giorgio Gaber. Così la tentazione di pensare che il Nostro tenti di spararla alta o grossa c’è. Poi però, bisogna fare i conti con lo spettacolo. E per farlo, bisogna andare a vederlo. E allora ti accorgi che Brunori, sul palco, non perde nemmeno una stilla di quella che per convenzione chiameremmo coerenza artistica, ma che nella realtà invece è quella che in tutto per tutto si definisce poetica. Anche se ai più al termine potrebbe sembrare assai alto. La poetica di Brunori è sempre la stessa, quella dei suoi tre dischi. E incorpora un’autoreferenzialità che, a teatro è ancora di più inevitabile, ma che non suona mai come spocchiosa. Anzi, è assai dissacrante. D’altronde, per sua stessa convinzione e affermazione (perché lo dice anche nello spettacolo), è il primo a sapere che non potrà mai tendere a De André. Perché alla fine il punto è proprio questo e si riannoda con quella sventurata definizione che fu data a Brunori e contemporanei: i cantautori degli anni zero. O meglio 2.0. E in effetti, il Nostro, anche nello spettacolo, ci gioca abbastanza, tra hashtag e post su come la scena musicale, soprattutto per chi l’abita, sia cambiata. L’altro rischio che poteva correre con uno spettacolo del genere è che lo spettacolo si rivelasse un’accozzaglia di parole e canzoni. Senza un filo logico. E invece, il filo logico c’è. E’ quello che si porta dietro dall’inizio, da quando gli chiesero perché aveva deciso di chiamarsi Brunori Sas. E la spiegazione che poi è anche una partecipata mozione degli affetti (soprattutto per il papà che non c’è più) funziona anche a teatro e regge ampiamente le fila di questo spettacolo. Che strappa sorrisi. E convince perché si vede e si sente che c’è stato un lavoro dietro e che non è frutto della bulimia d’apparire. Anche le canzoni che suona e che canta sono riarrangiate per l’occasione. Ci ha investito sopra per rimanere sul tema della ragione sociale dello spettacolo, “Brunori srl”. E i risultati gli danno ragione. Fa utili e il dilettevole. Ma per favore, ora, non lo chiamatelo più il cantautore degli anni zero. Anche perché siamo già nel 2015.