VEDI I VIDEO Intervista al Dalai Lama , Il movimento Colibris presentato da Pierre Rabhi Incontro con Predrag Matvejevic , Un’edizione del “Premio Firenze per le culture di pace”

Firenze, 10 dicembre 2014  Articolo pubblicato su “La Nazione” di oggi.

Racconti per la pace. Umanesimo, la cultura

“Racconti per la pace”. Ancora una volta alcune intense testimonianze sul tema della pace danno luogo ad un libro, consentendo al loro messaggio a più voci di propagarsi, di trasmettersi ad altri. Dalla storia della realizzazione di un pozzo in una zona dell’Etiopia estremamente povera e arretrata al reportage di un drammatico viaggio della speranza dall’Egitto; dal racconto di un’esperienza di solidarietà effettuata in un ospedale pediatrico dell’Uganda al ritratto di un immigrato speciale chiamato “il Madhi”.

Secondo questa gamma di motivi si celebra sabato pomeriggio a Firenze, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, la nona edizione del Premio letterario “Firenze per le culture di pace”. Edizione speciale, questa del 2014 dedicata al Dalai Lama, che si arricchisce, in parallelo al settore scrittura, di un’importante sezione musicale e che segna l’ingresso alla presidenza di Don Luigi Ciotti.

L’iniziativa è promossa dall’associazione “Un Tempio per la Pace” con Comune, Provincia e Regione Toscana ed abbina al premio per l’inedito (la pubblicazione dei “Racconti per la pace”) quello per l’edito (attribuito a “La sobrietà felice” di Pierre Rabhi). Riconoscimenti inoltre, nel corso dell’evento, a personalità di livello internazionale attive nella promozione della pace come lo scrittore croato Predrag Matvejevic e a progetti umanitari di rilievo come il francese Movimento Colibris.

Marco Marchi 

Da Ritratti di donne africane

Assétou

Non lontano dalla piccola moschea, prima del Baobab, vive da sola Assétou.
Adora le noccioline dolcificate con zucchero grezzo e la bevanda americana ai succhi tropicali. È una donna gentile; di mestiere fa la commerciante ambulante di cacahuettes lungo la strada che da Pikeoko porta a Ouagadougou.
Qualche tempo fa – era mattina – un cancro ai polmoni si è portato via suo marito. Ma ne ha lasciato i vestiti, la pipa e un bastone di legno rudimentalmente intarsiato.
L’unico loro figlio maschio, Boukari, è andato ad “alzare la china” nella capitale.
Le quattro figlie femmine sono tutte sposate, Inshallah… e sono disperse nei villaggi al di là del barrage.
Assétou si riunisce spesso con la sua grande famiglia e la nutre ancora, come sempre e come può.
L’unico rimpianto è non aver potuto far studiare le figlie.
Condivide con loro l’impotenza dovuta al non sapere scrivere né leggere.
Ha appreso, comunque, per necessità, dopo la morte del marito, l’arte del contare i numeri.
Pikeoko: qui è una mattina di gennaio calda e soffocante, ma già sembra sera dal cielo che fa ombra. Una foschia bassa colorata di rosa striscia fra le crepe arse della terra rossa. Un vento quasi muto geme come bestia.
Luce che muore e più muore più fa male agli occhi arrossati dalla polvere trasportata. Polvere grossa che fa tossire.
Assétou tossisce lungo la strada per Ouaga. Viaggia a piedi con la sua mercanzia raccolta in piccoli sacchetti di plastica riposti con cura su una cesta di vimini che trasporta sulla testa.
Il sentiero si biforca: tutte le due vie sono piane e infinite all’orizzonte. Dei cespugli piegati dal sole segnano il bivio sulla sabbia.
Durante il cammino, ancora lungo, Assétou si perde nei ricordi: è stata moglie, madre, sempre infaticabile lavoratrice.
Sulla sua spina dorsale gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Donna come lavoratrice, dunque, comunque e sempre: la sua è una forza doppiamente produttiva, come donna madre-nutrice e come donna produttrice.
La stessa forza che la condanna le dà il privilegio nel contempo di sentirsi insostituibile: negli anni è stata sua la cura della casa e della famiglia, l’educazione dei figli e l’assistenza agli anziani, così come la parte del lavoro di sussistenza entro il territorio domestico.
Da madre – ma anche da figlia – ha sempre assolto il compito quotidiano e pesantissimo di andare tutti i giorni a prendere l’acqua al pozzo (lontano diversi chilometri dal villaggio) e procurare la legna da ardere.
Se in Occidente lavoro significa spesso emancipazione, realizzazione personale e autonomia, in Burkina Faso, come in altri paesi africani in generale, la questione diventa vitale; parlare di lavoro porta il discorso sulla vita stessa delle donne, il loro valore e la loro sopravvivenza.
Le donne africane sono mani invisibili che silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa e ne strutturano la società.
Assétou è consapevole di aver goduto di un benessere maggiore (almeno per quanto riguarda l’importanza e il riconoscimento del suo ruolo) rispetto alle sorelle i cui mariti le hanno trascinate nella capitale, via dalla situazione agreste nativa.
Il loro trasferimento nelle città ha portato all’appiattimento verso il basso di molte delle tradizioni e dei valori che ancora sopravvivono nelle campagne e di conseguenza a un peggioramento del loro status sociale.
Tra i pensieri, Assétou raggiunge la sua postazione di lavoro, all’angolo del carreffour, dove quotidianamente passano decine di autobus, taxi sept places e qualche jeep con toubab.
Ogni fermata è una corsa al finestrino, una contrattazione per la vendita; ogni franco guadagnato è un successo. Mani e braccia che entrano tra i vetri dell’autovettura, sguardi che si incrociano per scrutare quanto si può insistere, urla da ambulanti che sfondano il silenzio del disinteresse.
La compravendita è essenza di vita, di scambio di umanità; dà il senso all’attesa e al movimento del viaggio.
A fine giornata Assétou è stanca ma contenta.
Il lavoro rende liberi. Libera si rincammina verso il suo villaggio.
Visto che la sera avanza e il vento sferza con una polvere granulosa, Assétou deve scegliere d’istinto se imboccare la via più breve o quella più facile.
Fiato di sera lento, dopo cinque ore di cammino, si comincia a vedere i falò del villaggio.
Sapore di acqua fresca, un piatto di polenta bianca condivisa davanti al fuoco, un fromager che stormisce, l’ombra della notte che si posa su tutto il villaggio.
È notte tarda ormai, quando Assétou stende il tappetino liso sulla sabbia dell’aia e prega. Poi si siede e alza la sottana di wax dai colori sferzanti e conta i franchi CFA guadagnati.
Libera, ritorna alle faville del focolare, piegata sul pentolone, ruota il grande mestolo che mescia la polenta per domani.
Prima che sia mattina avrà finito. Sia quel che sia, domani, comunque Assétou s’alzerà per ricominciare la lunga giornata. Poi andrà all’angolo della finestra: fuori, in cortile, un nero di pece maschererà la notte prima che sia luce.

Cinzia Chighine

(da un precendente volume di Racconti per la pace)

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