VEDI I VIDEO “La cavalla storna” letta da Gianni Santuccio , “Piccola antologia per un grande poeta”: Francesco Manetti legge Pascoli , “Maria Josè a Castelvecchio”, con Maria Pascoli, Giornale Luce 1937

Firenze, 6 aprile 2014 – Ricordando l’anniversario della scomparsa del poeta, avvenuta a Bologna il 6 aprile 1912.

Sul protettivo «nido» familiare e il tormentato, ambiguo e  sostanzialmente ambivalente rapporto intercorso tra Giovanni Pascoli e le sorelle Maria e Ida all’indomani della morte del padre, con molta acutezza Mario Luzi ha scritto: «Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto.

Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all’infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli.

In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero, ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura» (M. Luzi, Giovanni Pascoli).

Ma da queste ambiguità e da queste ambivalenze riassumibili nell’immagine-simbolo del «nido» (un’immagine, appunto, di afferenza anch’essa eminentemente naturale, derivata da un mondo squisitamente animale, anteriore ad ogni umana qualificazione e responsabilità adulta di tipo culturale) nasce la grande poesia di Pascoli.

Un testo notissimo ma tutto da rileggere come La cavalla storna (dai Canti di Castelvecchio) ci immette esemplarmente in questi territori «regressivi»: territori soggetti a mutilazioni e menomazioni, in apparenza dimissionari, umili e come dicevamo ambigui, ma oltremodo densi di implicazioni, impegnativi. Pascoli si affida alla propria memoria costellata di sventure e cose rimaste inesplicate, ma nel far questo redige un’attendibile, veridica storia del mondo. Una storia che continua, intimamente palpitante.

Marco Marchi

La cavalla storna

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi ancora,
e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla».

 

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…»

 

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

 

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».

 

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera.

 

«O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

A me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come».

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.

Giovanni Pascoli 

(da Canti di Castelvecchio, 1903)

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