Pubblicato il 31 dicembre 2021

‘Notizie di poesia’. I commenti più belli 2021 (con una filastrocca di Gianni Rodari)

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari Firenze, 31 dicembre 2021 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi – per ricordare questo non facile 2021 trascorso […]

di Marco Marchi

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2021 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi – per ricordare questo non facile 2021 trascorso insieme e festeggiare il 2022 in arrivo, con la speranza che l’emergenza che stiamo vivendo vada presto scomparendo – un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie. Un mosaico citazionale che viene ogni anno liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di “commento dei commenti” del nostro blog.

Evviva dunque, con la poesia che con la cultura tutta ci aiuta a vivere, e auguri cordialissimi! Che il 2022 possa essere per tutti un anno pieno di serenità e possibilmente non privo di gioia! Sempre in viaggio, sempre mobilitanti, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia nonostante qualche percorso davvero impervio che ognuno di noi dovrà affrontare, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco che illustra questo post di fine anno suggerisce.

E auguri di cuore, in poesia appunto, con questa propiziatoria, divertente e insieme saggiamente ragionevole filastrocca di Gianni Rodari; una filastrocca che vale per piccoli e grandi, senza troppe differenze, a partire da stanotte!

Filastrocca di Capodanno

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

A domani, buon anno nuovo!

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2021

Giacomo Trinci
Questo oltre-sonetto di Caproni, tratto dal Passaggio di Enea, 1945, evidenzia quella “disperata tensione metrica”, come scrive l’autore stesso nella nota, al cuore della partitura di tutta l’opera sua. Al centro della sua ispirazione stilistica, come già notava Raboni, c’è il continuo alternarsi di “durezza” e “fluidità”, icastica verticalità, e orizzontale legamento sintattico. Ecco, questa è la musica che il poeta stesso ritrovava nei sublimi ultimi quartetti di Beethoven: nell’opera 131, ascoltata nel giorno dei funerali di Elsa Morante. Pensiero-musica, o musica-pensiero che qui lega Amore e Morte: il legame musaico dell’Amore, e l’irta rottura della Morte, la frattura cupa, la verticale improvvisa. Le due grandi ali del pensiero poetante di Caproni, in questa sua fase”compatta”, strofica, sono tenute insieme: presto, invece, prenderanno a staccarsi e l’una, quella dura, irta, epigrammatica costituirà il suo gesto finale, secco, puro. Stacco di pura musica mentale.

Il “maestro in ombra”, formula pasoliniana che donava a Sbarbaro la sua presenza acuta e precisa nello svolgersi della poesia del novecento, arriva a noi con questa luce di commovente evidenza che proprio l’apparente minorità, l’ombra appunto, alimenta di scoperta continua. Sbarbaro è un caso unico, per la radicalità della sua posizione, di totale identificazione fra la proposta formale di una linea spoglia, di un linguaggio raso, prosastico con una tematica ad esso particolarmente unita: quella dell’aridità spirituale, dell’inerzia umana. La radicalità con cui è perseguita questa posizione in anni in cui ancora l’astro fiammeggiante della lingua di D’Annunzio era ancora il centro egemonico del discorso poetico, instaura quella prosa in poesia che batterà sentieri nuovi nello svolgimento del secolo. Qui, in particolare, nelle poesie al padre, il tessuto “in minore” sbalza una lingua aderente al sentire, umile e potente insieme :radicalmente prosastica quanto pienamente in poesia. Una miscela unica che si assegna ai pochi casi di miracolo nella poesia: l’unicità del sentire è tutt’uno con l’umiltà dell’esprimere in lingua.

In questa splendida fase del percorso poetico di Pasolini, che amo definire “foscoliana” per l’antico amore portato dal giovane liceale al poeta delle Grazie e dei Sepolcri, spicca con secca evidenza il configurarsi di una lingua della poesia ad alta densità ragionativa che, a partire dalla sezione dell’Usignolo della Chiesa cattolica intitolata “La scoperta di Marx”, scopre a livello stilistico una ben precisa “musica della sintassi” che ritrovava nel Leopardi della Ginestra e, appunto, nel Foscolo poematico, i suoi amati maestri. La terzina dantesca,passando per Pascoli, mette a fuoco lo spettro antinovecentesco di un dire dibattuto tra passione e ideologia, tra buio delle viscere e luce della ragione. Non si capisce a fondo lo sperimentalismo di questo Pasolini e di tutto il suo percorso letterario, se non si mette a fuoco la natura necessaria delle sue opzioni linguistiche di volta in volta adottate, se non si sottolinea il suo essere rapito, chiamato dalla sua vocazione poetica; Pasolini, in tutte le sue svolte, è chiamato dal suo amore per la realtà, come dirà in una delle sue poesie, “unico amore della sua vita”. Non è il suo uno sperimentalismo ” a tavolino”, esteriore; Pasolini, non sceglie, è scelto. Con la violenza di un atto d’amore. Nel capolavoro delle “Ceneri” la lingua batte e ribatte il pensiero alla ricerca della luce della grazia e della ideologia:nel nostro buio, la chiarezza sofferta di una preghiera, laico talismano.

Antonietta Puri
“Buttate pure via/ ogni opera in versi e in prosa./Nessuno è mai riuscito a dire / cos’ è nella sua essenza, una rosa”…Come non citare Caproni che in quattro versi basterebbe a commentare tutte le “responsabilità” metaforiche attribuite all’archetipico fiore… E’ talmente usata e abusata la rosa, come oggetto, come parola, come forma, come idea, diventando un’astrazione tale da aver fatto ormai evaporare nel tempo, proprio come “res ammissa” (titolo della raccolta che contiene i versi di Caproni), cioè come un “bene smarrito” il suo senso profondo. E migliore definizione della rosa e della sua essenza (e anche qui occorre andare sullo scontato) non può darla se non Getrud Stein quando afferma ,come per sentenza, che “Una rosa è una rosa, è una rosa”, intendendo, credo, che nonostante tutti i simbolismi che possiamo attribuirle e tutti i fronzoli di cui la rivestiamo…, essa è essenzialmente una rosa, cioè l’oggetto reale in cui consiste. Borges ha scritto questa poesia che fa parte della raccolta “Fervor de Buenos Aires” in età giovanile (aveva all’incirca 24 anni) e, per sua stessa ammissione, tutti i poemi di questa serie, per quanto da lui “mitigata”, “limata” “corretta” e in parte epurata, risentono di “eccessi barocchi, di sentimentalismi e vaghezze” tipici dell’età, nonostante il Borges di allora fosse pressoché identico a quello più maturo, che commenta nel prologo della raccolta, ancora pronto a correggersi, sempre diffidente del fallimento quanto del successo…Dunque, questa pur bella poesia del 1923 parla della rosa archetipica, portatrice di tutti i simboli attribuitile nel tempo, anche contraddittori, spirituali e sensuali: è la rosa incorruttibile ed eterna, irragiungibile nella sua essenza, figura della bellezza umana ma anche della sua caducità, fuggevolezza e incanto della vita; è la rosa dell’amore romantico, della dedizione e della purezza, ma anche del languore, del piacere e della galanteria; è la santità, il misticismo dantesco e mariano, ma è anche il fascino di labbra tumide e vermiglie, di guance accese dalla passione e dal pudore. Poi, già ultrasettantenne, Borges ne scrisse un’altra, “The unending rose, ultima poesia della raccolta chiamata, non a caso, “La rosa profunda”, in cui il poeta, narrando del mistico medievale Farid-Din Attar, vecchio e cieco come lui, lo immagina mentre oarla con una rosa, percependone infiniti significati e possibilità; è chiaro come Borges si immeddesimi in questa figura a l’io così simile, continuando a vedere nella rosa le qualità della profondità, della illimitatezza, dell’intimità , ventilando però la possibilità di scoprirnre forse l’essenza, quando, dopo la morte, Dio gli aprirà gli occhi ciechi per mostrargliela. Il nome stesso della raccolta, La rosa profunda, rima da forse alla forma che vi assumono i poemi, le parole e i versi, sovrapponendosi gli uni sugli altri, come i petali di una rosa, deponendo nel suo cuore nascosto la verità sulla poesia e sulla missiine del poeta.: quella di restituire alla parola la sua primitiva e forse nascosta virtù.

Scrittura intensa ed emozionante quella di Rilke nei “Sonetti a Orfeo”. Qui il poeta si commisura con il mito di Orfeo, nel tentativo di superare la caducità della vita, la consapevolezza della morte e l’umana fragilità di fronte ad essa, con l’irrompere della potenza salvifica del canto – che lo stesso Orfeo incarna – che è il sottofondo di una sacralità incontaminata, più forte persino della morte. Il presente sonetto tocca il culmine del ben noto mito. Come sappiamo, Orfeo aveva sposato Euridice e quando questa morì per il morso di un serpente, scese nell’Ade, sperando di riportarla in vita. Affascinati dalla sua musica, e dopo aver visto le Eumenidi dai capelli intrecciati di livide serpi intenerite dal suo canto e le tre bocche spalancate di Cerbero ammutolite, Plutone e Persefone concessero al divino cantore di riportare la moglie sulla terra, avvertendolo però di non voltarsi indietro a guardarla, fino al loro arrivo nel mondo dei vivi: Orfeo non resistette e si voltò ed Ermes, lo psicopompo, ricondusse tristemente Euridice nell’Ade. Orfeo che col suono dei suoi canti incantava le dure rocce e che al suono magico della cetra attraeva le piante e le fiere, si fa portavoce del musicista primordiale della Natura, echeggiandone i suoni e offrendole uno specchio sonoro; nel contempo egli apprende dalle bestie una forma di schiettezza d’ingegno, una saggezza che sfiora la santità, nell’osservare le loro menti libere dal brusio dei pensieri e dal susseguirsi infinito delle immagini; anzi, egli si fa maestro agli uomini, invitandoli ad uguagliare il comportamento naturalmente “sapienziale” degli animali. Lo scopo di Rilke, che è quello di Orfeo è quello di restituire all’umanità, tramite il canto e la poesia, il fascino anche di ciò che è caduco e tuttavia permane, di quello che è effimero, eppure è ricco di bellezza, di ciò che è ambiguo e misterioso, ma è da contemplare. Oggi, nella cacofonia dei rumori in cui siamo costretti a vivere, Orfeo non canta più: occorrerebbe ritrovare una dimensione tale da poter cogliere il senso profondo dei nostri sospiri e delle nostre parole. L’uomo che vive in questo stato di armoniosa contemplazione “si stacca” dalla moglie che crede solo nel mondo visibile, come Orfeo, inconsciamente, abbandona Euridice.

Isola Difederigo
Tutto in vista, tutto in piena luce, lo Spirito e la Forma, l’evidenza di ogni cosa creata e il fuoco che l’ha plasmata, in questo incalzante a tu per tu di opera e autore in cui si rinnova e si scioglie per intercessione di Maria la tenzone fra creatura e creatore. Quando scrive questi versi, riflettendo sul cuore pulsante della creazione artistica e poetica, Luzi è un poeta al pari del suo trecentesco alter ego carico di anni e di “dottrina”, giunto sulle tracce dell’imprescindibile Dante al “promesso appuntamento / di luce, di verità immanente…”. Ma anche ora, all’approssimarsi della meta ultima, la poesia di Luzi rilancia nella totalità della preghiera-visione l’immagine di un poeta rimasto sempre fedele alla prima immagine di sé, al sogno d’arte della sua incantata adolescenza senese e ai suoi fervidi vent’anni in ardore di un infinito viaggiare nella corrente della vita. A questo leopardiano poeta della giovinezza, umile e altissimo “principiante” anche nei suoi anni estremi, è dedicato il premio di poesia “Firenze per Mario Luzi” rivolto a quanti, giovani e giovanissimi, sono come lui disposti a credere che scrivere versi sia un modo illimitato di sentire e servire la vita e il suo “perenne desiderio”.

Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta “leggero”. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della “libertà”; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – “E lasciatemi divertire!” – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, “la gente”, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall’”uscita chiara”. Poesia sublime, che ci consegna l’incolmabile abisso che separa i vivi dai morti.

Giacomo Trinci ha saputo sostanziare la sua poesia di contenuti nei quali il lettore attento può scorgere, in filigrana, modelli ineludibili della nostra poesia di Otto e Novecento, ma su di essi ha innestato una sensibilità profonda nella quale scorgo tratti di grande originalità. Come in questa lirica, che trovo bellissima e non mi stanco di leggere e rileggere, in cui nessuna parola è di troppo e il dolore, composto e virile ma dilaniante, è tutto in quell’alternanza efficace di presenti e imperfetti che si avvicendano chiasticamente, tra ricordo e presente, prolungando nel presente la presenza (“ogni giorno è da qui vive con me”) e riverberando sul passato il dolore (“Si sentiva più stanca”; “era stanca, diceva sempre più”). Tutto ciò che è stato si riassume alla fine nel “morso asciutto” del dolore, una condizione di disarmonia interiore che Trinci esprime magnificamente utilizzando, per ben due volte nel giro di pochi versi, l’anacoluto, facendo irrompere, cioè, nell’armonia del verso la disarmonia del reale. Vorrei sottolineare, infine, l’originalità dell’incipit: la poesia comincia ex abrupto con un discorso a metà, come il mancato utilizzo della maiuscola sottolinea, quasi facendo ricorso ad una tecnica cinematografica.

Arianna Capirossi
Nelle poesie e nelle prose qui presentati predomina la nostalgia. La penna sensibilissima di Dina Ferri delinea, con tratti pascoliani e grande partecipazione emotiva, un mondo agreste che non c’è più, l’inesorabile trasformazione delle campagne. Particolarmente suggestivo è il testo sul villaggio di Ciciano: la prima parte, tutta al passato, è volta a ricostruire con le parole “le case rustiche, le viuzze” del villaggio, e a ridare vita ai personaggi anonimi che lo popolavano – i “ragazzi sporchi”, le madri, ma soprattutto l’anziana filatrice con il suo geranio senza fiori. L’impiego dell’imperfetto dà al lettore l’idea di un’atmosfera passata e immobile, sospesa, come quella delle fiabe: la vecchina “filava”, “vestiva un abito nero”, “amava”, “innaffiava”, “narrava”. Eppure, un giorno tutto finisce: la filatrice viene a mancare; l’intero villaggio muta d’aspetto agli occhi dell’autrice. Nella parte finale, concentrata sull’oggi, predominano le negazioni: “non riconosco”, “Questo non è più Ciciano”, “una donna che non conobbi”, “non sorrise”. Il villaggio che era ora non è più, anche se conserva il suo nome. La prosa si conclude con una malinconica metafora: il pianto delle campane, unico elemento del luogo ancora familiare all’autrice.

La durezza degli avvenimenti si riverbera nelle aspre sonorità di “Contro le altere torri” di Mario Luzi: la poesia dipinge davanti agli occhi del lettore la scena d’orrore dell’11 settembre 2001 e invita alla riflessione sul futuro che ci aspetta, concludendo con l’interrogativa diretta “Come?”, colma di angoscia. L’allitterazione della liquida “r”, che caratterizza i soggetti del nefasto evento, gli “aerei” e le “altere torri”, riecheggia lungo l’intero componimento in parole quali “contro”, “rancore”, “sorta di ebbrezza”, “morte”, “creature / sacrificali”, “tenebra”, “soverchiato, oppresso” (attributi dell’animo). Tale allitterazione, associata al significato delle parole in cui ricorre, contribuisce a rievocare il carattere sinistro e lugubre del referente. La medesima figura sonora è presente in “11 settembre”: anche qui parole quali “alterigia”, “torreggiare”, “crollo” e “voragine” risaltano nei versi, caratterizzandoli con i loro suoni ruvidi. La durezza si stempera nei versi finali, in particolare grazie alla rima “preghiera” – “vera”, che impiega il suono della liquida per veicolare, in questo caso, un afflato di speranza. È così che dopo la cupezza di “frenesia di morte” ed “estremo affronto”, il tono della poesia si risolleva, e il suono “r” da ferale si muta in mite vibrazione di un’orazione di pace.

Maria Grazia Ferraris
Poesie severe, senza compiacimenti lirici o facili sentimentalismi, un luogo privilegiato, Milano, la città dove il poeta è nato e vive, riferimenti puntuali a luoghi e tempi condivisi ( una stazione, Greco, la stazione dei pendolari e degli studenti, via Cadamosto e la sala Venezia, la comunità di recupero…). Luoghi non poetici per definizione, quelli della poesia di Milo De Angelis, ma di grande impatto esistenziale. La condizione di vita dei personaggi deangelisiani è quella dello «scacco», della precarietà, della incapacità di diventare padroni del proprio destino. “Ti ritrovo alla stazione di Greco..”: un verso prosastico, narrativo, da controcanto, un riferimento preciso a desolati luoghi milanesi senza la prospettiva della città eterna, salvifica,“una città di naufragi e di naufraghi e mi piace immaginarla circondata da un oceano minaccioso.” Momenti autobiografici e dialoghi giudicati importanti, significativi, temi ossessivi, quello della solitudine, la morte,l’amicizia spezzata, l’adolescenza tragica, la perdita della giovinezza e dei suoi sogni, il corpo piagato. Compaiono concetti psicoanalitici come rimozione, silenzio, sublimazione, pulsione di morte, dialogo mancato che offrono una lettura a molteplici livelli e in più direzioni, di cui l’autore è ben consapevole: “ Accanto ad ogni uomo disperato c’è un retore raffinato, accanto ad un individuo gesticolante c’è l’uomo di freddezza, lucidità e precisione. Esistono diverse e differenti spinte in ognuno: la poesia è il tentativo d’equilibrio tra loro…”.
ll paradosso e l’antitesi come i re della poesia inquieta del grande poeta. La vita come delirio sugli abissi della inutilità e della grandezza: “uno come me dove potrà ficcarsi?” Vladimir Vladimirovic Majakovskij, il grande animatore del Futurismo russo. Lirica tipicamente majakovskiana: voce sonante, sopra le righe, urlate, nel gioco paradossale delle immagini: piccolo come il grande oceano / povero come un miliardario /silenzioso come l’umil tuono / balbuziente come Dante o Petrarca… grande e inutile. La forza delle parole. In realtà è un discorso sulla poesia che riflette su se stessa, sul suo destino e sulla girandola delle metafore che l’accompagnano, sull’ iperbolico uso dell’ossimoro. Anche per lui la delusione storica fu inevitabile a tanta baldanza e fiducia rivoluzionaria, preludio alla sua fatale “resa” con il canto A piena voce, -dedicato ai posteri-, che rappresenta il suo congedo orgoglioso dalla vita e dalle illusioni, ma nessuno saprà come lui con sincerità disarmante costruire un canto così puro e assoluto per l’ideale rivoluzionario, ideale del quale sarà lui stesso vittima predestinata. Nella sua dimensione urlata, ripropone qui una poesia drammaticamente sincera e presaga: “dove mi è apprestata una tana?”. Non gli sarà apprestata, come sappiamo.

Damiano Malabaila
Tra le facoltà della poesia c’è anche quella di dar voce ai morti. O meglio, di rendere in immagini palpabilissime i pensieri dei vivi – di quei vivi che sentono più degli altri, i poeti – sul grande mistero che ci attende. La impareggiabile Emily Dickinson lo fa con la sua solita grazia magnetica e devastante: le quartine a ritmo alternato sobbalzanti come il trotto dell’ultimo cavallo, la sua lingua inglese quasi pudica, sobria e democraticamente (come la morte) paratattica, ma allo stesso tempo vibrante dello slancio di un pensiero che tocca le radici della vita.

Alle prese con gli affetti e i dolori più intimi, Gatto lavora come un pittore che scioglie i colori più malinconici nella dolcezza. Semplici, dimessi, a tratti addirittura impoetici, questi versi mostrano il volto più umano del poeta e tendono alla savissima ingenuità del “pianto da bambino”. E, da questa fantasia volutamente discreta, non fuochi d’artificio, ma poesia onesta.

framo
“Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Un poeta che si esprime con tale “libertà, naturalezza e preziosa chiarezza” (citando le parole che l’amatissimo Boris rivolse all’amatissima Marina), come può lasciarsi tentare da umana, troppo umana gelosia, al punto da “tentare” di farne il titolo di una sua poesia tra le più celebri? Forse proprio perché è poeta e lo è fino in fondo: una creatura difficile da amare, incapace, forse, di provare quell’amore che si manifesta nelle forme note ai più; un essere infelice e tormentato – ma meraviglioso – che, non potendo non mantenersi fedele a se stesso e alla propria anima, vive di contraddizioni che tenta di risolvere in chiave di passione poetica, in totale obbedienza all’unico amore per cui riesca a nutrire un sentimento autenticamente cristallino e incondizionato. “… Tutta la mia vita è una storia d’amore con la mia anima …”. Anima immensa la tua, Marina Cvetaeva.

In una lettera bellissima, datata 6 gennaio 1923, Rilke scrive che “la morte si annida così in profondità nell’essenza dell’amore che non la contraddice mai”. Nel suo conclusivo invito laico ad amare generosamente la vita la morte viene descritta come “la metà della vita stessa che ci volta le spalle”. Proprio ciò che emerge dal meraviglioso testo qui riproposto in lettura. L’elaborazione della perdita dell’amata Euridice, fattasi per l’amante Orfeo interiore radice – di una pianta da frutti in potenziale, ostinato divenire -, si pone al contempo come avvio e approdo di elezione, entro un percorso di faticosa ma necessaria accettazione dell’assenza, che il poeta-uomo, creatura terrena e determinata, “parente dell’albero, del fiore, del campo”, si impegna a non dismettere. Animato dalla convinzione che solo giungendo ad amare anche “il proprio più grande terrore” si possa sperare di tenere in vita, coltivandola “negli abissi del proprio cuore”, la presenza, per quanto trasfigurata, di chi ci fu caro e che, come identità individuale esperibile e riconoscibile, nel dominio della realtà fisica non potrà essere più. Grandioso.

Paolo Parrini
Cosa colpisce in modo così inevitabile della poesia di Rocco Scotellaro, che la fa apparire unica rara e preziosa.Il suo senso sociale, certo, l’impegno civile e umano per il suo Sud.Ma insieme la sua solitudine, la sua disperata distanza dalle sue stesse genti, quel suo quid di sensibilità e di profondo senso poetico che lo allontana mentre lo lega, dagli altri uomini.In questo il suo afflato giunge all’acme, essere vicino , amare e allo stesso tempo essere anche altro.Si dice che il Poeta abbia bisogno degli altri come nessuno, e insieme dagli altri viva una certa distanza.Un senso della morte incombente, l’amore per la sua terra, il rapporto intenso con una madre tanto amata e contemporaneamente così lontana dalla sua psiche troppo bisognosa d’amore.Viene da pensare a quanto Scotellaro avrebbe potuto dare ancora alla Poesia, con doloroso amore come era in lui innato.Restano le sue opere, e il senso di una morte troppo vorace, che ce lo strappò quasi ragazzo, lasciandoci l’amaro sapore della nostra finitezza.

Celan muore suicida, ed era inevitabile forse, che accadesse. perché la sua furiosa frenesia, il suo scrivere del suo dolore e del dolore del mondo aveva dentro il presagio della fine. Quale mente umana può sopportare una simile prova, tutti gli orrori visti e subiti senza perdere la ragione, senza decidere di obliare per sempre ogni bruttura. Forse solo la consolazione di un Dio poteva salvarlo, ma la fede salvifica non è per tutti e non è per tutti i Poeti. Penso a Pavese e alla sua morte, penso a quella di molti altri immensi Poeti e Poetesse come la Plath, la Pozzi, la Rosselli.In questo morire inevitabile di sensibilità accentuate, germogliano perle poetiche inestimabili. Celan lascia meraviglie, dolorose e uniche.”Dice il vero chi parla di ombre”…scrive Celan, le ombre dei morti nei campi di sterminio, il genocidio senza rimedio che non può essere accettato. Oltre questa terra imperfetta e crudele, lo attendeva , forse, la quiete della morte, laddove la sua Poesia potesse correre e librarsi al di là di tutto il dolore, attraversandolo e vincendolo.

Pina Speciale
Ne “La trama delle lucciole” Camillo Sbarbaro rivolge il suo pensiero ad un donna da lui amata.Forse sarà stata la visione delle lucciole che certe sere d’estate si vedono volare in frotte, a creare per lui e la donna l’atmosfera ideale per l’innamoramento; ormai tutto è finito, non li lega neppure la trama dei ricordi ,il cui filo resta a stento nelle mani del poeta(tema che sarà ripreso da Eugenio Montale).I ricordi non sono condivisi, sono ” mani che non giungono a toccarsi”:la donna non ricorda le parole d’amore che aveva detto al poeta; tutta la storia del loro amore è come se non fosse mai accaduta, e lascia una traccia effimera in loro due come la scia della nave nell’acqua.Il loro amore è stato solo un’illusione da parte del poeta, forse dovuta alla suggestiva atmosfera creata dalle lucciole di Nervi ,le cicale e la casa sul mare.

Nella seconda raccolta di Montale “Le Occasioni” la memoria costituisce un “filo” attraverso cui il ricordo del passato può condurre ad un’illuminazione, forse ad una salvezza(“il varco”). Ne “La casa dei doganieri” il poeta rievoca una casa a strapiombo sul mare dove una sera, da giovane, fu felice con Annetta.Il poeta dice con meravigliosa metafora (lo sciame dei pensieri) che la ragazza riempì di sé quella casa con la sua vitalità e gaiezza.Ormai altre esperienze di vita impediscono a lei di ricordare e il poeta è consapevole che solo lui tiene il “filo” della memoria.Chi dei due vive veramente la vita? Lei che segue il mutare degli eventi lasciando alle spalle il passato oppure lui che è ancorato ai ricordi?

Romana Burroni
La foglia tremante come la loro fragilità di uomini soldato, e forte come il sentimento di fratellanza che “rinasce” nel dolore della guerra.”Sentivano, tutti questi uomini, ciascuno singolarmente la propria fragilità. E che sentivano, nello stesso tempo, nascere nel loro cuore qualche cosa che era molto più importante della guerra, che sentivano nascere affetto, amore l’uno per l’altro. E che si sentivano così piccoli come erano di fronte al pericolo, si sentivano così disarmati con tutte le loro armi, si sentivano fratelli.” (Ungaretti commenta Ungaretti, La fiera letteraria 1963).

Maria Borchert
La poesia “Elevation” di Baudelaire si configura come un “invito” discretamente entusiasta,anche come una solozione di tipo terapeutico. Dobbiamo affinare e sensibilizzare la nostra visione delle bellezze esistenti nella natura,spesso così poco appariscenti. Da questo può sorgere una fonte di potere curativo.Già Goethe ha fatto appello al momento.“Rimani un attimo,sei così bella”, ci dice adesso Baudelaire con meravigliosa eleganza. Leggo anche la bella poesia trasferendone i significati al nostro tempo attuale così triste. Ci sono modi per trovare facilmente la felicità.

tristan51
Scriveva Raboni in un articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 16 febbraio 2004: «Di poesia si può parlare all’infinito, si possono dire tante cose utili e persino illuminanti. Ma è solo quando si entra “fisicamente” in contatto con un singolo testo poetico, con lo specifico e concreto combinarsi, in esso, di immagini e di suoni, di pensieri limpidamente espressi e di emozioni altrimenti inesprimibili, è solo allora, dicevo, che la poesia cessa di essere un’astrazione o un’aspirazione per trasformarsi in un fatto, in un’esperienza, in una realtà compiutamente e irresistibilmente sensibile». Gli risponde Baldacci in uno dei suoi bellissimi scritti d’arte raccolti per Rizzoli: «Da giovane chiedevo alla letteratura molti significati; ora mi piace quella che non significa: non perché debba essere letteraria e nulla più, anzi! Ma in quanto dimostri un’aderenza biologica ai ritmi della vita. Questo gusto mi si è formato guardando i quadri da vicino».

Che bel poeta Heaney! Un’amica molto sensibile e intelligente mi ha fatto una volta notare l’irresistibile comunanza, o per meglio dire la stretta fratellanza delle menti umane che vige al di là dei confini spazio-temporali. Così, nel rievocare al presente gli avi amati che dissodano la terra, rivivendone i gesti con la penna fra le dita, ecco che il poeta Seamus Heaney rimanda in una sua celebre compoizione, “Digging”, forse senza volerlo, a un’immagine ancor più antica e genuinamente italiana: “Se pareba boves/ alba pratalia araba/ et albo versorio teneba/ et negro semen seminaba” (“Indovinello veronese”).

Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materassi”) quando sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili». La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte.

Maria Antonietta Rauti
Pier Paolo Pasolini: poliedrico, eccentrico, poeta di Casarsa, mai sconfitto, mai crocifisso realmente. Risorge dopo il giorno dei morti, festa continua alla vita oltre i limiti. Personalità forte, terribile nel suo essere diversamente vero, combattivo e nuovo. La modernità del suo pensiero fa tremare. La sua poesia risorge fra le Ceneri ogni volta che la si rispolvera,ogni volta che lo si richiama con la sua stessa forza di superare i preconcetti, sconfitti a priori. Da Casarsa, a Bologna, a Roma le sue Ceneri ritornano alla vita, rivivono tra le pagine delle Università e riecheggiano ogni volta che si incontra il suo nome che è in se stesso, ormai, icona senza tempo di poesia e grazia nel ricordo di chi lo ha incontrato ed amato… Grazie Pier Paolo!

Ricordo ancora come se fosse ieri il nostro incontro tra i suoi amati libri della Palmaverde… Grazie Professore Marchi per avermi regalato l’occasione di conoscere Roberto Roversi! La politica marxista del grande Poeta della Palmaverde lo porta a pensieri lontani nel tempo… Immedesimandosi in riflessioni profonde sfiora eternamente l’anima di chi continua a leggere le sue parole attente, pensate e scritte.

Rosalba de Filippis
Ecco un sonetto monoblocco tipicamente caproniano, in cui sono state cancellate le spaziature tra quartine e terzine. Sono sempre livide e fredde le albe di Giorgio Caproni; sono esse stesse luoghi di passaggio, come del resto le latterie nebbiose. Molti i trapassati, cioè coloro che sono passati due volte, attraverso quelle “deserte porte” che si aprono e si chiudono inutilmente, attraverso cui attendere la morte. Porte che altrove sbattono, che producono un sussulto, come avveniva, proprio all’alba, durante i rastrellamenti dei tedeschi negli anni della seconda guerra mondiale, di cui Caproni parla nei suoi racconti. Sono quelle porte che ci fanno sentire la nostra condizione di superstiti, sempre più curvi sotto un passato che pesa sulle spalle e con per mano un futuro troppo fragile. Come tanti Enea smarriti, metafora di una condizione umana universale.”

Ferruccio Palmucci
Chi, come me, conserva da decenni nel cuore la musica di “Musa, quell’uom di multiforme ingegno/Dimmi, …” ha dovuto fare un certo sforzo per adeguarsi alle moderne traduzioni delle opere di Omero. Ma, una volta “passato il guado”, il piacere della nuova lettura non è stato inferiore a quello procuratomi dalla versione di Pindemonte, a parte l’emozione vissuta, nel lontano tempo della giovinezza, nel comune stupore di un’aula scolastica. Ho letto la versione di Rosa Calzecchi Onesti e l’ho trovata eccellente, ricca di immagini che gli conferiscono leggerezza, colore e ritmo nella misura giusta per non diventare una traduzione meramente letterale, solamente fedele al testo. Qui il brano, tra i più struggenti dell’intero poema, si avvale della sensibilità di una poetessa innamorata dell’Odissea fin dall’adolescenza, arricchita dalla cultura e dalla buona conoscenza del greco. L’intero libro XI possiede una straordinaria intensità umana e, in particolare, per la loro pietà e la drammaticità, i versi riguardanti l’incontro di Odisseo con la madre, di cui la Bemporad ci offre una parte della sua versione poetica. Odisseo consente alla madre, che beve il sangue nero, di riconoscerlo e subito inizia un dialogo straziante fra figlio e genitrice fatto di richieste di notizie, di risposte riguardanti il destino della famiglia, tutto descritto con accenti altamente tragici e dolorosi, segnati dalla stupenda immagine di Odisseo che per tre volte tenta di abbracciare la madre e per tre volte lei gli vola via dalle braccia come un’ombra. La traduzione della Calzecchi Onesti è molto efficace, ma nella versione della Bemporad il dolore e la pietà diventano poesia. E qui bisogna accennare al fatto che, essendo la poesia “intraducibile”, non c’è nessuno che, meglio di un poeta, ne possa fare una traduzione. Infatti qualunque parola di un linguaggio può essere tradotta in un altro linguaggio adeguandone il senso logico, ma le parole poetiche contengono immagini che andrebbero tradotte in parole contenenti le medesime immagini. Voglio dire che, più che il mero significato della parola, è il suo “quid” indicibile, irrazionale, che deve essere tradotto. Alla creatività poetica originale dovrebbe corrispondere un’altra creatività poetica espressa in un linguaggio diverso. Insomma il solo traduttore di un poeta non potrebbe essere che un altro poeta. Mi rendo conto che sto facendo un discorso accademico. Dove troveremmo un altro poeta per tradurre l’Odissea che sia all’altezza di Omero? Poeta come Omero? Eppure, in questo brano la Bemporad ci offre un bell’esempio di traduzione da poeta a poeta.

Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l’ “Anima Mundi” di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un “miracolo”, accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente “sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole” e vuole “rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.” Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando “fugge nella notte nera/ …per ascoltare il vento e la bufera”; quando ammira “le stelle nella notte scura” e “trema di freddo e di paura”; quando vorrebbe passare per “l’incognito sentiero …fuggir per valli” e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre “piange la bufera.” Immagini che rimandano al cuore dell’arcano universo che batte all’unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell’ “Anima mundi” che così bene ha trovato in lei l’espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, “a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero” l’ignota ragione del proprio destino, “il ritorno alla luce che fu.” Ma la risposta sarà: “Mai più!” Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all’età di 22 anni con un’insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell’infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell’indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo

Marco Capecchi
Chi è l’uomo nero di Esenin? La fine di ogni illusione, di ogni speranza di riscatto. La consapevolezza di una vita spesa per una Rivoluzione che rinnega se stessa.L’intuizione della tragedia che ormai incombe sul Poeta che come ogni Poeta paga per la propria generosità,ingenuità, ma pure grandezza e profondità. L’uomo nero è lo stalinismo che come ogni totalitarismo non sopporta la Poesia riducendola a propaganda menzognera. Una guerra impari in cui il vincitore,paradossalmente, è la vittima momentanea ovvero il Poeta che ancora possiamo leggere con commozione, partecipazione e gratitudine.

Grande, consapevole scrittore della crisi dell’uomo moderno, Federigo Tozzi: gli inetti, l’assenza di una provincia dotata di senso, la ricerca dei “misteriosi atti”, il nulla che motiva il vivere sono la materia delle sue opere. Scrittore difficile perché sperimentatore: la paratassi, la zoomata, ecc. Imprescindibile per capire il Novecento. E’ merito imperituro di critici come Debenedetti, Baldacci, Marchi, Luperini avercelo fatto capire.

Antonella Bottari
La poesia di Walt Whitman del 1865 “O capitano! Mio capitano! è una delle poesie americane più note del XIX secolo in ricordo di Abrahamo Lincoln, giovanissimo presidente americano. Anche se Lincoln non è mai chiamato direttamente nella poesia, viene alluso attraverso la metafora estesa del poema. Anche se, in superficie, “O Capitano! Mio capitano “descrive la morte di un capitano di una nave, Whitman usa una metafora estesa per descrivere il passaggio di Lincoln e il suo effetto sui suoi sostenitori. Per comprendere correttamente questa poesia, è utile rammentare le cause della guerra civile americana e dell’assassinio di Lincoln. Durante la guerra civile (1861-1865), gli Stati del Nord hanno combattuto contro gli stati del Sud in risposta al tentativo del Sud di separarsi dall’unione. Mentre la schiavitù era al centro del desiderio di indipendenza del Sud, la poesia di Whitman non menziona questo argomento. Al contrario, si concentra su una delle ragioni principali, ovvero che i nordisti combattono nella guerra per la conservazione dell’Unione. Nel 1861, gli Stati Uniti erano esistiti solo da circa 85 anni. Gran parte del mondo ancora considerava l’America come “grande esperimento” nella democrazia. La nazione divisa in due così presto dopo la sua creazione, segnerà un esperimento fallito e umiliazione nazionale. In “O Capitano! Mio capitano!” la rappresentazione di Whitman dell’eroismo di Lincoln si basa sul successo di Lincoln nel preservare l’unione, o portare in sicurezza la” nave di Stato “. Dopo una guerra sanguinosa, che è costata la vita di oltre 620.000 uomini, il generale confederato Robert E. Lee si arrende il 9 aprile 1865. Solo sei giorni più tardi il 15 aprile 1865, Lincoln è colpito da un simpatizzante del Sud, John Wilkes Booth. Questo tragico assassinio è stato uno shock per la nazione già provata. Walt Whitman, un nordista e sostenitore di Lincoln, è devastato dalla morte del presidente. La sua poesia, scritta in prima persona, mostra una reazione molto personale alla tragedia. Questa prospettiva personale mette il lettore nella posizione di testimone della tragedia e rafforza il fascino emozionale della poesia.

Una realtà enigmatica e perciò stesso ostile, una realtà mossa da un’irridente energia, che mimetizza le disarmonie e le sofferenze della vita. Questo è il mondo di Sylvia Plath, Lady Lazarus, che si rivolge a questo coagulo d’esperienza con l’aria e il piglio di una donna pronta alla sfida finale: in cuor suo sa d’essere diventata invincibile, la sua profetica parola ha sconfessato ogni finzione e ciò la rende eterna. Eternamente viva, ancora e sempre si libererà dal peso delle esperienze negative vissute con la percettibilità dei sensi: i nauseanti odori, gli occhi stanchi per aver visto la mostruosità di una vita che abbrutisce l’anima, il dolersi e mordere la propria coda per quel senso di sospensione e di non appagamento, l’inutilità del linguaggio che non porta comunicazione e partecipazione, ma solo fraintendimento, saranno finalmente solo un ricordo. Il “sepolcro”, la fine di una vita, così tremendamente snaturata e squallida, sarà smascherata da una donna che ogni volta tornerà a sorridere, fiera, libera, simbolo della verità conquistata nel sacrificio. E ancor più può sorridere, perché le son bastati appena tre decenni, per svelare e rappresentare l’orrido vero. Sul palcoscenico della vita si sviluppa un doppio dramma, quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, e quello degli uomini sciocchi e curiosi, una folla impersonale che non muta in alcun modo l’ inferno morale nel quale lei si trova. E agli astanti si rivolge, ribadendo d’essere sempre la donna animata dal desiderio di cogliere la verità: e a nulla varrebbe risorgere in altro corpo, perché nessuno la individuerebbe. Così che un gesto eccezionale e anormale che verrebbe catalogato come insano atto derivante da una follia circoscritta, diventa espediente per ricordare e risvegliare l’attenzione; quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, è un sacrificarsi, un far discutere sul perché delle sue scelte, che diventano simbolo di una genialità eccezionale, che sorge e si manifesta in differenti modi, anche quelli più strani. Su queste basi la ripetitività ossessiva, quasi maniacale, che appare come una condanna, resta l’unico mezzo logico-razionale per lanciare un messaggio di fede e di speranza. Sylvia Plath, Lady Lazarus, non recita una parte, si fa ed è personaggio tragico, è la creatura che deve consumare necessariamente il suo gesto, come se il suo fosse un atto cerimoniale che sorge da manifestazioni miracolistiche. E lei attende il suo pubblico, aspetta che la platea si riempia, che tutti osservino il momento del suo morire e risorgere dal fondo del teatro, con lo stesso corpo, solo con qualche cicatrice in più. È nel suo morire e risorgere che Sylvia Plath, prende coscienza d’essere fatta della stessa sostanza divina, e come il Cristo si ripropone, affronta un’ennesima prova, quella più impegnativa, per la quale il suo io si scontra con il silenzio e l’assenza d’ogni risposta. E, dalle polveri incenerite di un sentimento e di una fede, Sylvia Plath, declama il suo avvertimento, la sua promessa di un ciclico ritorno, un ritorno d’amore, lo stesso amore divino che alita sul mondo, perché il respiro s’accenda.

Angela Bottari
Venere (…) ha mantenuto la promessa. È la stessa promessa che secoli prima Afrodite, giungendo radiosa sul suo cocchio trainato da passeri, aveva fatto a Saffo e che giunge a compimento nei versi di un’altra antica poetessa che apertamente esprime la propria passione amorosa: Sulpicia. Anch’essa, come Catullo, stima “meno di un soldo il mormorio dei vecchi severi”, anzi è orgogliosa del proprio peccato d’amore. Per quanto sia, quella di Sulpicia, l’epoca dell’emancipazione della donna romana, destano meraviglia versi di tale ardita schiettezza: in questo Sulpicia si rivela sorella ideale delle donne che in ogni tempo hanno rivendicato il proprio ruolo di poetesse del sé più recondito e appassionato.

Ci è data oggi l’occasione per ravvivare memorie scolastiche sopite ma non perdute. Orazio, un poeta ben più profondo e complesso di quanto il suo stile “accessibile” e profondamente umano non faccia immaginare. Il cantore dell'”aurea mediocritas”, della vita semplice ma non banale perseguita attraverso il ritrovato legame con gli affetti e la natura, è anche, come acutamente osservato dal Prof. Marchi, l’autore del manifesto universale della poesia (“Non omnis moriar”); ed è il fine cesellatore di “caratteri” esemplificativi dei comuni difetti (l’inesorabile seccatore, il poeta logorroico), nonché autore di versi ormai radicati nel nostro lessico – “Parva sed apta mihi”, “Nunc est bibendum” e, naturalmente, “Carpe diem”. In qualche modo debitore ad Alceo ma con un intento poetico ben diverso. Non amaramente deluso e disilluso dalla vita come il poeta greco ma piuttosto permeato dalla concreta e consapevole saggezza derivante dalla sua adesione all’epicureismo. Non consultare oracoli, non disperdere le tue energie proiettandoti verso un nebuloso futuro. Piuttosto cogli il giorno presente e assaporane ogni istante, accettando con animo fermo l’ineluttabile finitezza dell’esistenza umana.

Duccio Mugnai
Una virile e struggente rivendicazione di vita, nella forte volontà di esser vero, di non risparmiarsi di fronte a nessuna esperienza esistenziale, subodorata sempre come possibilità di contraddizione e di rinnegamento. E se molte sono state le esigenze e le mode, le “Rime nuove” di Carducci rivendicano un’ispirazione lontana, fondata sulla terra di Maremma, tanto amata, tanto performativa quanto lo studio dei classici e la passione civile. E tutto ciò che è stato “vano” nel vivere, alla vista della meraviglia della natura, diventa dolce sogno “dietro il giovenile incanto”. Una pittura del cuore, una visione della “macchia ” di colore, come nell’estro più geniale e sfuggente del miglior artista di pittura. L’anima laica e appassionata diventa fiero rifiuto di una mortalità imperante, dove anche il poeta cadrà, consapevole, però, di una meraviglia semplice, agreste e contadina, dove foscoliana memoria di un reo tempo che fugge e di “cure onde meco egli si strugge”, non può cancellare un’impressione che è molto più di un semplice accadimento. Piuttosto è colore che ancora dà vita al poeta, pace profonda che non dimentica la morte, ma poeticamente la trasfigura: “[…] Pace dicono al cuor le tue colline / Con le nebbie sfumanti e il verde piano / Ridente ne le pioggie mattutine.”.

Jalāl al-Dīn Rūmī, interessante conoscenza e contatto col mondo “sufi” musulmano. La saggezza e la ricerca di Dio avvengono attraverso l’amore. Seppur i versi siano stati scritti nel 13° secolo, è penetrante la parola di questo poeta, nella fruibilità di un’attualizzazione sempre presente, al di là di ogni artificiosa epoca umana e soprattutto delle colpe ed i limiti del mondo contemporaneo. Così nasce la gioia di aver trovato la perla che riscatta la tua vita: “[…] Oggi ho trovato te / e coloro che ieri ridevano di me / e mi schernivano / oggi si dispiacciono di non aver cercato te / come ho fatto io […]”. Allo stesso modo l’amore sembra raggiungere attraverso ogni via intrapresa la dimensione mistica, un’intimità maggiore con la propria interiorità
“divina”: “[…] La mia freccia d’amore / è giunta a destinazione / Sono nella casa della misericordia / e il mio cuore / è un luogo di preghiera”.

Pietro Paolo Tarasco
L’esser nato in una città di sconvolgente bellezza come Praga, penso che per un grande poeta come Seifert, sia stato una fortunata e straordinaria coincidenza. L’ha decantata come meglio ha potuto; quel grande amore per la città natia, metaforicamente, l’ha commisurata all’amore che si dona alla donna più amata. Solo chi ha avuto la “fortuna” di percorrere le buie e deserte stradine nella magica Praga di alcuni decenni fa, potrà veramente immergersi nella poetica così intima di Seifert. La sua unicità poetica mi ha portato immediatamente alla memoria un suo caro amico, anch’egli praghese, chiamato “Il poeta di Praga”. E’ il fotografo realista e romantico Joseph Sudek. L’hanno amata e decantata con la stessa incommensurabile bellezza, l’uno con sublimi versi e l’altro con straordinarie immagini. Ringrazio il Prof. Marchi per aver pubblicato questi bellissimi versi che mi hanno riportato immediatamente nei ricordi di una città di inebriante e indimenticabile bellezza.

Chiara Scidone
Non conoscevo Dina Ferri, ma leggendo questi testi e documentandomi, sono rimasta impressionata in modo positivo. Una ragazza così giovane con un grande talento e che purtroppo, ci ha lasciati troppo presto. Ella era solita portarsi dietro un diario in cui appuntava i propri pensieri più nascosti, che era per l’appunto quello che poi è diventato il “Quaderno del nulla”, con esso è come se ci avesse lasciato la sua “eredità” e come se ci avesse fatto entrare nella sua testa e nei suoi sogni più intimi. Si nota dalle poesie che Pascoli ha influito molto su di lei, nonostante ciò i suoi scritti sono molto originali e moderni per l’epoca.

Ancora ricordo quando i programmi televisivi si interruppero, l’11 settembre del 2001, per annunciare l’attacco delle torri gemelle a New York. Io stessa ho visitato il ground Zero, quella piazza, un vuoto enorme, un cimitero a cielo aperto. La tristezza e il dolore anche a distanza di anni sono sempre nell’aria. Questa poesia di Luzi ci aiuta a ricordare l’avvenuto invitandoci ad accantonare l’alterigia e a conseguire la pace, tutti insieme. Una poesia che ci porta ad avere speranza che disgrazie come questa non succedano più.

Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso il quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di “oggettività d’ammirazione”, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta e scrittore della semplicità stilistica, riecheggiante una cadenza pascoliana. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.

Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al maturo “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – che solo nella vita ma amato dai colleghi ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Lorenzo Dini
È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.

Nella “Chimera” di Dino Campana il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Roberta MaestrelliBerti
Ognuna di queste poesie di Sibilla Aleramo sembra un inno alla solitudine: è l’amore che manca, manca il suo calore…! E tutto sembra fare eco al quel senso di freddo e di malinconia: la rosa bella e bianca fiorita nel gelo, il lamento del mare, la città che grida ma la esclude, la luna nel cielo d’inverno…

Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.

Giulia Bagnoli
La quartina è il simbolo di questo duo erotico dove la donna tiene le fila del discorso poetico. Abbiamo nel testo di Patrizia Valduga una coppia doppia che giustifica la quartina: un uomo e una donna; il linguaggio e il corpo. Prima dei corpi abbiamo il linguaggio, qui sempre provocatorio, tanto da far apparire l’incontro amoroso come una grottesca farsa. Ricordiamo l’incipit di “Medicamenta”: “Sa sedurre la carne la parola, / prepara il gesto, produce destini…”.

Ecco, in Cristina Campo, il paradosso della poesia che mentre sfugge all’azione corrosiva del tempo, facendosi dunque eterna, muore. Similmente, come teorizzato da Barthes, avviene con la fotografia, che, se da un lato rende eterno, dall’altro uccide proprio con la sua forma fissa. La parola poetica, tuttavia, è eterna nel suo morire e rinascere; nel suo tornare sempre ad essere una pagina bianca e il pugno chiuso prenatale. Soltanto così può farsi davvero speranza e alleviare il dolore.

Greta Fantechi
L’“Orfeo nero cantore della Negritudine” Senghor ci ha offerto una poesia rivoluzionaria, seppur, in apparenza, sovranamente digiuna di politica. Attraverso questo viaggio poetico Senghor celebra, con una limpidezza senza pari, il sentimento d’amore verso il proprio continente, ed abbraccia, con il suo “corpo-nazione”, l’intero popolo femminile africano. Il contenuto scandalistico di “Femme noire” non scaturisce, a mio parere, dall’audace, squisito ritratto di un’anonima Venere nera naturalizzata francese, né tanto meno, dalle intorte spirali d’erotismo che sembrano avvilupparsi sui versi del componimento, ma dall’atto di “carità poetica” di Senghor, volto a spezzare quelle catene mentali del pensiero filo-occidentale che costringono la Donna africana alla funzione stereotipata di marionetta dal linguaggio inarticolato, cui rivolgersi con un altrettanto storpiato francese, assoggettata a dinamiche e compromessi da salone parigino degli anni ’30. La “ribellione poetica” di Senghor consiste, infatti, nel “decolonizzare le coscienze”, nell’affermare e nobilitare l’umanità della Donna di colore, elevandola al grado di essere umano e provocando nel lettore bianco quasi una sconcertante sensazione di spaesamento. Come già osservava Sartre: “Noi ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all’improvviso ci appare come una maglia logora, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor”.

Davide Boera
Mario Benedetti
. Con lui l’incontro fu molto causale e fu con la sua morte. È quasi stupefacente che alcuni degli autori contemporanei che ho amato di più li abbia conosciuti per il tramite della loro morte. Un’altro fu Riccarelli. La sua poesia sa meditare: “Non ti salvare” che sa di Kavafis, “Mi serve e non mi serve”… La sua poesia sa amare, come in quella postata da Marco e in tante altre… Là la sua poesia sa anche mordere: Mario Benedetti è anche un poeta politico, la cui voce non è attutita nemmeno dalla polvere del tempo, come nella sua rilettura del Padre Nostro. Ma soprattutto la sua poesia sa tirare “Sassolini alla finestra” in quella strenua “Difesa dell’allegria” che in fondo in fondo ricorda un po’ quella del nostro Ungaretti. Un grande poeta, che si apprezza meglio nella pronuncia rioplatense.

Aretusa Obliviosa
Qualche tempo fa l’amico e poeta Giacomo Trinci notava acutamente, durante la presentazione di un libro nella mia piccola Pistoia, come la narrativa toscana sia in genere percorsa a livello tematico e stilistico da una vena di cattiveria tale da costituirne una sorta di file rouge, un’impronta genetica facilmente riscontrabile. È certo a pieno titolo che Federigo Tozzi si inserisce in questa tradizione, e la succitata prosa di “Bestie”, splendida e terribile ne è la prova: la si potrebbe rileggere dieci, venti volte e alla ventunesima avvertiremmo ancora quello strano effetto allo stomaco, quella sensazione difficile da sopportare che ci fa penare per un rospo alla stessa stregua che per una persona. “Uomini e rospi”, come ci fa notare nelle sue belle e memorabili pagine Nicoletta Mainardi parlando appunto dei due amici – ma guarda un po’! – toscani entrambi Viani e Tozzi; proprio così: uomini e rospi, che si scambiano i ruoli fra umanità e crudeltà, fra pittura e scrittura, fra la cifra della dura realtà e l’implacabile tratto espressionistico, fra Viareggio e Siena. Potremmo anche non muoverci di un solo passo, rimanere nel medesimo confondersi di mare, colline e viottoli, limitarci ad alzare lo sguardo verso la lucchesia e il manicomio di Magliano, e ritroveremmo, con uno scarto di solo qualche decennio, una prosa, epica e contemporanea al tempo stesso, non meno scarnificata e crudele, la stessa pennellata espressionistica (che ci sia la complice mediazione delle conterranee “Chiavi nel pozzo”?) negli icastici e indelebili ritratti delle “Libere donne” di Tobino. Una delle poche scritture del novecento, a mio modesto parere, capaci di reggere il confronto della crudeltà col nostro Federigo.

Yumiko Nakajima
Mi sembra che nelle “Bestie” Tozzi fa affidarsi al flusso della coscienza, inserendo il paesaggio senese, racconta memoria con l’umore inerte, e racconta le sue memorie incise nel profondo. All’improvviso appare l’animale e gli insetti, e ci spaventa dal suo modo della descrizione con la crudelta’, sopratutto quello di rospo.

Cesare Blanc
Un componimento, questo di Vincenzo Cardarelli, all’insegna del “Lentamente muore”. Quante volte preferiamo assopirci nel sonno della quotidianità e decidiamo invece di accantonare ogni riverbero di vita. O quante volte ci facciamo da parte per gli altri, reprimiamo il nostro volere per accontentare una persona a noi vicina. Ma quando si ha dentro il desiderio della vita, come vedo espresso in questa preziosa poesia, prima o poi, per quanto si possa far finta di non vederlo, egli verrà a cercarci e finirà col sovrastarci. Anche se il senso non sposa propriamente il motivo cromatico originale palazzeschiano, tale come lo concepiva il buon Aldo si intende, direi che si tratta di un inno al rosso, colore della vita. Non pare un’ipotesi del tutto azzardata, dopo tutto. Infatti, la quotidianità viene qui cromaticamente descritta come il “nero cerchio”. A mio modesto avviso, ritengo che questo periodo di pandemia e conseguente quarantena ci abbia probabilmente messo davanti un’immagine molto similare a quella descritta nella poesia. Avremo provato in tanti e più volte “una smania di non dormire”, ad esempio. Si potrebbe, inoltre, riflettere sul finale “io annego nel tempo”, tema molto caro e che sovente associo a Marcel Proust. Rimandiamo spesso al domani le nostre piccole passioni, desideri, sogni, fino a che il tempo non ci costringe a mettere tutto da parte in maniera definitiva, e il tutto ci urla dentro. A partire da questo componimento di Cardarelli, e l’associazione indiretta con il mare (noto “mi travolgono rumorosi” e “annego”, registro di lingua che mi suggerisce il mare, l’acqua), in un vecchio componimento ho provato a parlare anche io di tempo e di memoria che svanisce e si smeriglia con esso, nei seguenti termini, eccone un piccolo estratto “Un bimbo con le mani sporche / che riempie di acqua il secchiello, / e si intorbidisce di arena. / Ridurre il mare a dimensione umana, / per contemplarlo e far suggello / di quelle onde che si fan tòrte”.

Sabina Candela
Vigore, forza, verità, vita, sensualità… sacro e profano, in Patrizia Valduga, indissolubilmente coniugati, incarnati da una parola che si staglia vivida e ci cattura, poiché da’ il senso del tutto, lo manifesta senza inutili orpelli, riuscendo a rendere straordinariamente ciò che… è!

Giancarlo Giancarli
Nei versi raffinati di Cristina Campo il dolore trapela dall’antitesi, dall’accostamento ossimorico dei termini, e, seppure compostamente e misuratamente espresso non per questo ci appare meno desolato e intenso, meno profondo. Non è poesia facile, quella della Campo, ma una più attenta lettura ci permette di intuire il senso delle immagini, di quel roseo ulivo, di quell’orcio pieno d’acqua; il senso di quella luna del lungo inverno, di quello sdoppiarsi dell’autrice nei due versi finali. E il gelo che prova nella sua lieve tunica è il gelo che avvolge la sua anima appassionata nella solitudine della fine dell’amore.

Artur Spanjolli
Se ci sono due storie che meritano che l’umanità ricordi per sempre quelle sono: Iliade e Odissea. La mente che ha concepito , specialmente la seconda storia, è stata la mente più brillante del narrare umano. Ogni elemento è nel posto che deve essere. Ulisse in via di ritorno. Proci che meritano il castigo. Penelope, eroica e fiduciosa, che non perde mai la speranza, contraria a Elena, ignobile e dissacrale, Ulisse che tutto narra con flashback, Telemaco , cresciuto che cerca il padre. Questa attesa mitica, questo prolungamento sapiente dei fatti, vicino alla finale, sono gli ingredienti grandiosi , per scrivere un ritorno epico, una vendetta sacrosanta, un finale migliore che ogni ingegno umano, ogni vivida e geniale immaginazione può inventare. Nobel per ogni elemento ivi legato gli darei. Questa attesa mitica di Penelope, nel nome del amore, il flusso d’ energia negativa dei proci che premono con la persistente richiesta di comodo: scegli uno di noi. Il re non torna più! Il figlio Telenaco che cerca il suo padre. Il re. Perfino il cane Argo ha una valenza mitologica nella sua attesa di 20 anni, nel riconoscere il padrone e crollare alla fine morto. Quanto può vivere un cane? 17 anni? Omero portando l’età del cane a 21, forse 22, fino al inverosimile insomma, da all’animale più vicino e fedele al uomo una valenza veramente mitica. C’è allora la bestia che non solo non abbandona mai, ma che anche serba l’odore del corpo del padrone, (Ulisse) per più di vent anni nella sua memoria canina. Geniale. Sublime. Omero è senza ombra di dubbio il più grande dei narratori!

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