Firenze, 31 dicembre 2021 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi – per ricordare questo non facile 2021 trascorso insieme e festeggiare il 2022 in arrivo, con la speranza che l’emergenza che stiamo vivendo vada presto scomparendo – un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie. Un mosaico citazionale che viene ogni anno liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di “commento dei commenti” del nostro blog.
La durezza degli avvenimenti si riverbera nelle aspre sonorità di “Contro le altere torri” di Mario Luzi: la poesia dipinge davanti agli occhi del lettore la scena d’orrore dell’11 settembre 2001 e invita alla riflessione sul futuro che ci aspetta, concludendo con l’interrogativa diretta “Come?”, colma di angoscia. L’allitterazione della liquida “r”, che caratterizza i soggetti del nefasto evento, gli “aerei” e le “altere torri”, riecheggia lungo l’intero componimento in parole quali “contro”, “rancore”, “sorta di ebbrezza”, “morte”, “creature / sacrificali”, “tenebra”, “soverchiato, oppresso” (attributi dell’animo). Tale allitterazione, associata al significato delle parole in cui ricorre, contribuisce a rievocare il carattere sinistro e lugubre del referente. La medesima figura sonora è presente in “11 settembre”: anche qui parole quali “alterigia”, “torreggiare”, “crollo” e “voragine” risaltano nei versi, caratterizzandoli con i loro suoni ruvidi. La durezza si stempera nei versi finali, in particolare grazie alla rima “preghiera” – “vera”, che impiega il suono della liquida per veicolare, in questo caso, un afflato di speranza. È così che dopo la cupezza di “frenesia di morte” ed “estremo affronto”, il tono della poesia si risolleva, e il suono “r” da ferale si muta in mite vibrazione di un’orazione di pace.
Paolo Parrini
Cosa colpisce in modo così inevitabile della poesia di Rocco Scotellaro, che la fa apparire unica rara e preziosa.Il suo senso sociale, certo, l’impegno civile e umano per il suo Sud.Ma insieme la sua solitudine, la sua disperata distanza dalle sue stesse genti, quel suo quid di sensibilità e di profondo senso poetico che lo allontana mentre lo lega, dagli altri uomini.In questo il suo afflato giunge all’acme, essere vicino , amare e allo stesso tempo essere anche altro.Si dice che il Poeta abbia bisogno degli altri come nessuno, e insieme dagli altri viva una certa distanza.Un senso della morte incombente, l’amore per la sua terra, il rapporto intenso con una madre tanto amata e contemporaneamente così lontana dalla sua psiche troppo bisognosa d’amore.Viene da pensare a quanto Scotellaro avrebbe potuto dare ancora alla Poesia, con doloroso amore come era in lui innato.Restano le sue opere, e il senso di una morte troppo vorace, che ce lo strappò quasi ragazzo, lasciandoci l’amaro sapore della nostra finitezza.
Celan muore suicida, ed era inevitabile forse, che accadesse. perché la sua furiosa frenesia, il suo scrivere del suo dolore e del dolore del mondo aveva dentro il presagio della fine. Quale mente umana può sopportare una simile prova, tutti gli orrori visti e subiti senza perdere la ragione, senza decidere di obliare per sempre ogni bruttura. Forse solo la consolazione di un Dio poteva salvarlo, ma la fede salvifica non è per tutti e non è per tutti i Poeti. Penso a Pavese e alla sua morte, penso a quella di molti altri immensi Poeti e Poetesse come la Plath, la Pozzi, la Rosselli.In questo morire inevitabile di sensibilità accentuate, germogliano perle poetiche inestimabili. Celan lascia meraviglie, dolorose e uniche.”Dice il vero chi parla di ombre”…scrive Celan, le ombre dei morti nei campi di sterminio, il genocidio senza rimedio che non può essere accettato. Oltre questa terra imperfetta e crudele, lo attendeva , forse, la quiete della morte, laddove la sua Poesia potesse correre e librarsi al di là di tutto il dolore, attraversandolo e vincendolo.
Pina Speciale
Ne “La trama delle lucciole” Camillo Sbarbaro rivolge il suo pensiero ad un donna da lui amata.Forse sarà stata la visione delle lucciole che certe sere d’estate si vedono volare in frotte, a creare per lui e la donna l’atmosfera ideale per l’innamoramento; ormai tutto è finito, non li lega neppure la trama dei ricordi ,il cui filo resta a stento nelle mani del poeta(tema che sarà ripreso da Eugenio Montale).I ricordi non sono condivisi, sono ” mani che non giungono a toccarsi”:la donna non ricorda le parole d’amore che aveva detto al poeta; tutta la storia del loro amore è come se non fosse mai accaduta, e lascia una traccia effimera in loro due come la scia della nave nell’acqua.Il loro amore è stato solo un’illusione da parte del poeta, forse dovuta alla suggestiva atmosfera creata dalle lucciole di Nervi ,le cicale e la casa sul mare.
Nella seconda raccolta di Montale “Le Occasioni” la memoria costituisce un “filo” attraverso cui il ricordo del passato può condurre ad un’illuminazione, forse ad una salvezza(“il varco”). Ne “La casa dei doganieri” il poeta rievoca una casa a strapiombo sul mare dove una sera, da giovane, fu felice con Annetta.Il poeta dice con meravigliosa metafora (lo sciame dei pensieri) che la ragazza riempì di sé quella casa con la sua vitalità e gaiezza.Ormai altre esperienze di vita impediscono a lei di ricordare e il poeta è consapevole che solo lui tiene il “filo” della memoria.Chi dei due vive veramente la vita? Lei che segue il mutare degli eventi lasciando alle spalle il passato oppure lui che è ancorato ai ricordi?
Romana Burroni
La foglia tremante come la loro fragilità di uomini soldato, e forte come il sentimento di fratellanza che “rinasce” nel dolore della guerra.”Sentivano, tutti questi uomini, ciascuno singolarmente la propria fragilità. E che sentivano, nello stesso tempo, nascere nel loro cuore qualche cosa che era molto più importante della guerra, che sentivano nascere affetto, amore l’uno per l’altro. E che si sentivano così piccoli come erano di fronte al pericolo, si sentivano così disarmati con tutte le loro armi, si sentivano fratelli.” (Ungaretti commenta Ungaretti, La fiera letteraria 1963).
Maria Borchert
La poesia “Elevation” di Baudelaire si configura come un “invito” discretamente entusiasta,anche come una solozione di tipo terapeutico. Dobbiamo affinare e sensibilizzare la nostra visione delle bellezze esistenti nella natura,spesso così poco appariscenti. Da questo può sorgere una fonte di potere curativo.Già Goethe ha fatto appello al momento.“Rimani un attimo,sei così bella”, ci dice adesso Baudelaire con meravigliosa eleganza. Leggo anche la bella poesia trasferendone i significati al nostro tempo attuale così triste. Ci sono modi per trovare facilmente la felicità.
tristan51
Scriveva Raboni in un articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 16 febbraio 2004: «Di poesia si può parlare all’infinito, si possono dire tante cose utili e persino illuminanti. Ma è solo quando si entra “fisicamente” in contatto con un singolo testo poetico, con lo specifico e concreto combinarsi, in esso, di immagini e di suoni, di pensieri limpidamente espressi e di emozioni altrimenti inesprimibili, è solo allora, dicevo, che la poesia cessa di essere un’astrazione o un’aspirazione per trasformarsi in un fatto, in un’esperienza, in una realtà compiutamente e irresistibilmente sensibile». Gli risponde Baldacci in uno dei suoi bellissimi scritti d’arte raccolti per Rizzoli: «Da giovane chiedevo alla letteratura molti significati; ora mi piace quella che non significa: non perché debba essere letteraria e nulla più, anzi! Ma in quanto dimostri un’aderenza biologica ai ritmi della vita. Questo gusto mi si è formato guardando i quadri da vicino».
Che bel poeta Heaney! Un’amica molto sensibile e intelligente mi ha fatto una volta notare l’irresistibile comunanza, o per meglio dire la stretta fratellanza delle menti umane che vige al di là dei confini spazio-temporali. Così, nel rievocare al presente gli avi amati che dissodano la terra, rivivendone i gesti con la penna fra le dita, ecco che il poeta Seamus Heaney rimanda in una sua celebre compoizione, “Digging”, forse senza volerlo, a un’immagine ancor più antica e genuinamente italiana: “Se pareba boves/ alba pratalia araba/ et albo versorio teneba/ et negro semen seminaba” (“Indovinello veronese”).
Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materassi”) quando sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili». La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte.
Maria Antonietta Rauti
Pier Paolo Pasolini: poliedrico, eccentrico, poeta di Casarsa, mai sconfitto, mai crocifisso realmente. Risorge dopo il giorno dei morti, festa continua alla vita oltre i limiti. Personalità forte, terribile nel suo essere diversamente vero, combattivo e nuovo. La modernità del suo pensiero fa tremare. La sua poesia risorge fra le Ceneri ogni volta che la si rispolvera,ogni volta che lo si richiama con la sua stessa forza di superare i preconcetti, sconfitti a priori. Da Casarsa, a Bologna, a Roma le sue Ceneri ritornano alla vita, rivivono tra le pagine delle Università e riecheggiano ogni volta che si incontra il suo nome che è in se stesso, ormai, icona senza tempo di poesia e grazia nel ricordo di chi lo ha incontrato ed amato… Grazie Pier Paolo!
Ricordo ancora come se fosse ieri il nostro incontro tra i suoi amati libri della Palmaverde… Grazie Professore Marchi per avermi regalato l’occasione di conoscere Roberto Roversi! La politica marxista del grande Poeta della Palmaverde lo porta a pensieri lontani nel tempo… Immedesimandosi in riflessioni profonde sfiora eternamente l’anima di chi continua a leggere le sue parole attente, pensate e scritte.
Rosalba de Filippis
Ecco un sonetto monoblocco tipicamente caproniano, in cui sono state cancellate le spaziature tra quartine e terzine. Sono sempre livide e fredde le albe di Giorgio Caproni; sono esse stesse luoghi di passaggio, come del resto le latterie nebbiose. Molti i trapassati, cioè coloro che sono passati due volte, attraverso quelle “deserte porte” che si aprono e si chiudono inutilmente, attraverso cui attendere la morte. Porte che altrove sbattono, che producono un sussulto, come avveniva, proprio all’alba, durante i rastrellamenti dei tedeschi negli anni della seconda guerra mondiale, di cui Caproni parla nei suoi racconti. Sono quelle porte che ci fanno sentire la nostra condizione di superstiti, sempre più curvi sotto un passato che pesa sulle spalle e con per mano un futuro troppo fragile. Come tanti Enea smarriti, metafora di una condizione umana universale.”
Ferruccio Palmucci
Chi, come me, conserva da decenni nel cuore la musica di “Musa, quell’uom di multiforme ingegno/Dimmi, …” ha dovuto fare un certo sforzo per adeguarsi alle moderne traduzioni delle opere di Omero. Ma, una volta “passato il guado”, il piacere della nuova lettura non è stato inferiore a quello procuratomi dalla versione di Pindemonte, a parte l’emozione vissuta, nel lontano tempo della giovinezza, nel comune stupore di un’aula scolastica. Ho letto la versione di Rosa Calzecchi Onesti e l’ho trovata eccellente, ricca di immagini che gli conferiscono leggerezza, colore e ritmo nella misura giusta per non diventare una traduzione meramente letterale, solamente fedele al testo. Qui il brano, tra i più struggenti dell’intero poema, si avvale della sensibilità di una poetessa innamorata dell’Odissea fin dall’adolescenza, arricchita dalla cultura e dalla buona conoscenza del greco. L’intero libro XI possiede una straordinaria intensità umana e, in particolare, per la loro pietà e la drammaticità, i versi riguardanti l’incontro di Odisseo con la madre, di cui la Bemporad ci offre una parte della sua versione poetica. Odisseo consente alla madre, che beve il sangue nero, di riconoscerlo e subito inizia un dialogo straziante fra figlio e genitrice fatto di richieste di notizie, di risposte riguardanti il destino della famiglia, tutto descritto con accenti altamente tragici e dolorosi, segnati dalla stupenda immagine di Odisseo che per tre volte tenta di abbracciare la madre e per tre volte lei gli vola via dalle braccia come un’ombra. La traduzione della Calzecchi Onesti è molto efficace, ma nella versione della Bemporad il dolore e la pietà diventano poesia. E qui bisogna accennare al fatto che, essendo la poesia “intraducibile”, non c’è nessuno che, meglio di un poeta, ne possa fare una traduzione. Infatti qualunque parola di un linguaggio può essere tradotta in un altro linguaggio adeguandone il senso logico, ma le parole poetiche contengono immagini che andrebbero tradotte in parole contenenti le medesime immagini. Voglio dire che, più che il mero significato della parola, è il suo “quid” indicibile, irrazionale, che deve essere tradotto. Alla creatività poetica originale dovrebbe corrispondere un’altra creatività poetica espressa in un linguaggio diverso. Insomma il solo traduttore di un poeta non potrebbe essere che un altro poeta. Mi rendo conto che sto facendo un discorso accademico. Dove troveremmo un altro poeta per tradurre l’Odissea che sia all’altezza di Omero? Poeta come Omero? Eppure, in questo brano la Bemporad ci offre un bell’esempio di traduzione da poeta a poeta.
Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l’ “Anima Mundi” di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un “miracolo”, accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente “sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole” e vuole “rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.” Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando “fugge nella notte nera/ …per ascoltare il vento e la bufera”; quando ammira “le stelle nella notte scura” e “trema di freddo e di paura”; quando vorrebbe passare per “l’incognito sentiero …fuggir per valli” e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre “piange la bufera.” Immagini che rimandano al cuore dell’arcano universo che batte all’unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell’ “Anima mundi” che così bene ha trovato in lei l’espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, “a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero” l’ignota ragione del proprio destino, “il ritorno alla luce che fu.” Ma la risposta sarà: “Mai più!” Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all’età di 22 anni con un’insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell’infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell’indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo
Marco Capecchi
Chi è l’uomo nero di Esenin? La fine di ogni illusione, di ogni speranza di riscatto. La consapevolezza di una vita spesa per una Rivoluzione che rinnega se stessa.L’intuizione della tragedia che ormai incombe sul Poeta che come ogni Poeta paga per la propria generosità,ingenuità, ma pure grandezza e profondità. L’uomo nero è lo stalinismo che come ogni totalitarismo non sopporta la Poesia riducendola a propaganda menzognera. Una guerra impari in cui il vincitore,paradossalmente, è la vittima momentanea ovvero il Poeta che ancora possiamo leggere con commozione, partecipazione e gratitudine.
Grande, consapevole scrittore della crisi dell’uomo moderno, Federigo Tozzi: gli inetti, l’assenza di una provincia dotata di senso, la ricerca dei “misteriosi atti”, il nulla che motiva il vivere sono la materia delle sue opere. Scrittore difficile perché sperimentatore: la paratassi, la zoomata, ecc. Imprescindibile per capire il Novecento. E’ merito imperituro di critici come Debenedetti, Baldacci, Marchi, Luperini avercelo fatto capire.
Antonella Bottari
La poesia di Walt Whitman del 1865 “O capitano! Mio capitano! è una delle poesie americane più note del XIX secolo in ricordo di Abrahamo Lincoln, giovanissimo presidente americano. Anche se Lincoln non è mai chiamato direttamente nella poesia, viene alluso attraverso la metafora estesa del poema. Anche se, in superficie, “O Capitano! Mio capitano “descrive la morte di un capitano di una nave, Whitman usa una metafora estesa per descrivere il passaggio di Lincoln e il suo effetto sui suoi sostenitori. Per comprendere correttamente questa poesia, è utile rammentare le cause della guerra civile americana e dell’assassinio di Lincoln. Durante la guerra civile (1861-1865), gli Stati del Nord hanno combattuto contro gli stati del Sud in risposta al tentativo del Sud di separarsi dall’unione. Mentre la schiavitù era al centro del desiderio di indipendenza del Sud, la poesia di Whitman non menziona questo argomento. Al contrario, si concentra su una delle ragioni principali, ovvero che i nordisti combattono nella guerra per la conservazione dell’Unione. Nel 1861, gli Stati Uniti erano esistiti solo da circa 85 anni. Gran parte del mondo ancora considerava l’America come “grande esperimento” nella democrazia. La nazione divisa in due così presto dopo la sua creazione, segnerà un esperimento fallito e umiliazione nazionale. In “O Capitano! Mio capitano!” la rappresentazione di Whitman dell’eroismo di Lincoln si basa sul successo di Lincoln nel preservare l’unione, o portare in sicurezza la” nave di Stato “. Dopo una guerra sanguinosa, che è costata la vita di oltre 620.000 uomini, il generale confederato Robert E. Lee si arrende il 9 aprile 1865. Solo sei giorni più tardi il 15 aprile 1865, Lincoln è colpito da un simpatizzante del Sud, John Wilkes Booth. Questo tragico assassinio è stato uno shock per la nazione già provata. Walt Whitman, un nordista e sostenitore di Lincoln, è devastato dalla morte del presidente. La sua poesia, scritta in prima persona, mostra una reazione molto personale alla tragedia. Questa prospettiva personale mette il lettore nella posizione di testimone della tragedia e rafforza il fascino emozionale della poesia.
Una realtà enigmatica e perciò stesso ostile, una realtà mossa da un’irridente energia, che mimetizza le disarmonie e le sofferenze della vita. Questo è il mondo di Sylvia Plath, Lady Lazarus, che si rivolge a questo coagulo d’esperienza con l’aria e il piglio di una donna pronta alla sfida finale: in cuor suo sa d’essere diventata invincibile, la sua profetica parola ha sconfessato ogni finzione e ciò la rende eterna. Eternamente viva, ancora e sempre si libererà dal peso delle esperienze negative vissute con la percettibilità dei sensi: i nauseanti odori, gli occhi stanchi per aver visto la mostruosità di una vita che abbrutisce l’anima, il dolersi e mordere la propria coda per quel senso di sospensione e di non appagamento, l’inutilità del linguaggio che non porta comunicazione e partecipazione, ma solo fraintendimento, saranno finalmente solo un ricordo. Il “sepolcro”, la fine di una vita, così tremendamente snaturata e squallida, sarà smascherata da una donna che ogni volta tornerà a sorridere, fiera, libera, simbolo della verità conquistata nel sacrificio. E ancor più può sorridere, perché le son bastati appena tre decenni, per svelare e rappresentare l’orrido vero. Sul palcoscenico della vita si sviluppa un doppio dramma, quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, e quello degli uomini sciocchi e curiosi, una folla impersonale che non muta in alcun modo l’ inferno morale nel quale lei si trova. E agli astanti si rivolge, ribadendo d’essere sempre la donna animata dal desiderio di cogliere la verità: e a nulla varrebbe risorgere in altro corpo, perché nessuno la individuerebbe. Così che un gesto eccezionale e anormale che verrebbe catalogato come insano atto derivante da una follia circoscritta, diventa espediente per ricordare e risvegliare l’attenzione; quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, è un sacrificarsi, un far discutere sul perché delle sue scelte, che diventano simbolo di una genialità eccezionale, che sorge e si manifesta in differenti modi, anche quelli più strani. Su queste basi la ripetitività ossessiva, quasi maniacale, che appare come una condanna, resta l’unico mezzo logico-razionale per lanciare un messaggio di fede e di speranza. Sylvia Plath, Lady Lazarus, non recita una parte, si fa ed è personaggio tragico, è la creatura che deve consumare necessariamente il suo gesto, come se il suo fosse un atto cerimoniale che sorge da manifestazioni miracolistiche. E lei attende il suo pubblico, aspetta che la platea si riempia, che tutti osservino il momento del suo morire e risorgere dal fondo del teatro, con lo stesso corpo, solo con qualche cicatrice in più. È nel suo morire e risorgere che Sylvia Plath, prende coscienza d’essere fatta della stessa sostanza divina, e come il Cristo si ripropone, affronta un’ennesima prova, quella più impegnativa, per la quale il suo io si scontra con il silenzio e l’assenza d’ogni risposta. E, dalle polveri incenerite di un sentimento e di una fede, Sylvia Plath, declama il suo avvertimento, la sua promessa di un ciclico ritorno, un ritorno d’amore, lo stesso amore divino che alita sul mondo, perché il respiro s’accenda.
Angela Bottari
Venere (…) ha mantenuto la promessa. È la stessa promessa che secoli prima Afrodite, giungendo radiosa sul suo cocchio trainato da passeri, aveva fatto a Saffo e che giunge a compimento nei versi di un’altra antica poetessa che apertamente esprime la propria passione amorosa: Sulpicia. Anch’essa, come Catullo, stima “meno di un soldo il mormorio dei vecchi severi”, anzi è orgogliosa del proprio peccato d’amore. Per quanto sia, quella di Sulpicia, l’epoca dell’emancipazione della donna romana, destano meraviglia versi di tale ardita schiettezza: in questo Sulpicia si rivela sorella ideale delle donne che in ogni tempo hanno rivendicato il proprio ruolo di poetesse del sé più recondito e appassionato.
Ci è data oggi l’occasione per ravvivare memorie scolastiche sopite ma non perdute. Orazio, un poeta ben più profondo e complesso di quanto il suo stile “accessibile” e profondamente umano non faccia immaginare. Il cantore dell'”aurea mediocritas”, della vita semplice ma non banale perseguita attraverso il ritrovato legame con gli affetti e la natura, è anche, come acutamente osservato dal Prof. Marchi, l’autore del manifesto universale della poesia (“Non omnis moriar”); ed è il fine cesellatore di “caratteri” esemplificativi dei comuni difetti (l’inesorabile seccatore, il poeta logorroico), nonché autore di versi ormai radicati nel nostro lessico – “Parva sed apta mihi”, “Nunc est bibendum” e, naturalmente, “Carpe diem”. In qualche modo debitore ad Alceo ma con un intento poetico ben diverso. Non amaramente deluso e disilluso dalla vita come il poeta greco ma piuttosto permeato dalla concreta e consapevole saggezza derivante dalla sua adesione all’epicureismo. Non consultare oracoli, non disperdere le tue energie proiettandoti verso un nebuloso futuro. Piuttosto cogli il giorno presente e assaporane ogni istante, accettando con animo fermo l’ineluttabile finitezza dell’esistenza umana.
Duccio Mugnai
Una virile e struggente rivendicazione di vita, nella forte volontà di esser vero, di non risparmiarsi di fronte a nessuna esperienza esistenziale, subodorata sempre come possibilità di contraddizione e di rinnegamento. E se molte sono state le esigenze e le mode, le “Rime nuove” di Carducci rivendicano un’ispirazione lontana, fondata sulla terra di Maremma, tanto amata, tanto performativa quanto lo studio dei classici e la passione civile. E tutto ciò che è stato “vano” nel vivere, alla vista della meraviglia della natura, diventa dolce sogno “dietro il giovenile incanto”. Una pittura del cuore, una visione della “macchia ” di colore, come nell’estro più geniale e sfuggente del miglior artista di pittura. L’anima laica e appassionata diventa fiero rifiuto di una mortalità imperante, dove anche il poeta cadrà, consapevole, però, di una meraviglia semplice, agreste e contadina, dove foscoliana memoria di un reo tempo che fugge e di “cure onde meco egli si strugge”, non può cancellare un’impressione che è molto più di un semplice accadimento. Piuttosto è colore che ancora dà vita al poeta, pace profonda che non dimentica la morte, ma poeticamente la trasfigura: “[…] Pace dicono al cuor le tue colline / Con le nebbie sfumanti e il verde piano / Ridente ne le pioggie mattutine.”.
Jalāl al-Dīn Rūmī, interessante conoscenza e contatto col mondo “sufi” musulmano. La saggezza e la ricerca di Dio avvengono attraverso l’amore. Seppur i versi siano stati scritti nel 13° secolo, è penetrante la parola di questo poeta, nella fruibilità di un’attualizzazione sempre presente, al di là di ogni artificiosa epoca umana e soprattutto delle colpe ed i limiti del mondo contemporaneo. Così nasce la gioia di aver trovato la perla che riscatta la tua vita: “[…] Oggi ho trovato te / e coloro che ieri ridevano di me / e mi schernivano / oggi si dispiacciono di non aver cercato te / come ho fatto io […]”. Allo stesso modo l’amore sembra raggiungere attraverso ogni via intrapresa la dimensione mistica, un’intimità maggiore con la propria interiorità
“divina”: “[…] La mia freccia d’amore / è giunta a destinazione / Sono nella casa della misericordia / e il mio cuore / è un luogo di preghiera”.
Pietro Paolo Tarasco
L’esser nato in una città di sconvolgente bellezza come Praga, penso che per un grande poeta come Seifert, sia stato una fortunata e straordinaria coincidenza. L’ha decantata come meglio ha potuto; quel grande amore per la città natia, metaforicamente, l’ha commisurata all’amore che si dona alla donna più amata. Solo chi ha avuto la “fortuna” di percorrere le buie e deserte stradine nella magica Praga di alcuni decenni fa, potrà veramente immergersi nella poetica così intima di Seifert. La sua unicità poetica mi ha portato immediatamente alla memoria un suo caro amico, anch’egli praghese, chiamato “Il poeta di Praga”. E’ il fotografo realista e romantico Joseph Sudek. L’hanno amata e decantata con la stessa incommensurabile bellezza, l’uno con sublimi versi e l’altro con straordinarie immagini. Ringrazio il Prof. Marchi per aver pubblicato questi bellissimi versi che mi hanno riportato immediatamente nei ricordi di una città di inebriante e indimenticabile bellezza.
Chiara Scidone
Non conoscevo Dina Ferri, ma leggendo questi testi e documentandomi, sono rimasta impressionata in modo positivo. Una ragazza così giovane con un grande talento e che purtroppo, ci ha lasciati troppo presto. Ella era solita portarsi dietro un diario in cui appuntava i propri pensieri più nascosti, che era per l’appunto quello che poi è diventato il “Quaderno del nulla”, con esso è come se ci avesse lasciato la sua “eredità” e come se ci avesse fatto entrare nella sua testa e nei suoi sogni più intimi. Si nota dalle poesie che Pascoli ha influito molto su di lei, nonostante ciò i suoi scritti sono molto originali e moderni per l’epoca.
Ancora ricordo quando i programmi televisivi si interruppero, l’11 settembre del 2001, per annunciare l’attacco delle torri gemelle a New York. Io stessa ho visitato il ground Zero, quella piazza, un vuoto enorme, un cimitero a cielo aperto. La tristezza e il dolore anche a distanza di anni sono sempre nell’aria. Questa poesia di Luzi ci aiuta a ricordare l’avvenuto invitandoci ad accantonare l’alterigia e a conseguire la pace, tutti insieme. Una poesia che ci porta ad avere speranza che disgrazie come questa non succedano più.
Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso il quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di “oggettività d’ammirazione”, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta e scrittore della semplicità stilistica, riecheggiante una cadenza pascoliana. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.
Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al maturo “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – che solo nella vita ma amato dai colleghi ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.
Lorenzo Dini
È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.
Nella “Chimera” di Dino Campana il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.
Roberta MaestrelliBerti
Ognuna di queste poesie di Sibilla Aleramo sembra un inno alla solitudine: è l’amore che manca, manca il suo calore…! E tutto sembra fare eco al quel senso di freddo e di malinconia: la rosa bella e bianca fiorita nel gelo, il lamento del mare, la città che grida ma la esclude, la luna nel cielo d’inverno…
Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.
Giulia Bagnoli
La quartina è il simbolo di questo duo erotico dove la donna tiene le fila del discorso poetico. Abbiamo nel testo di Patrizia Valduga una coppia doppia che giustifica la quartina: un uomo e una donna; il linguaggio e il corpo. Prima dei corpi abbiamo il linguaggio, qui sempre provocatorio, tanto da far apparire l’incontro amoroso come una grottesca farsa. Ricordiamo l’incipit di “Medicamenta”: “Sa sedurre la carne la parola, / prepara il gesto, produce destini…”.
Ecco, in Cristina Campo, il paradosso della poesia che mentre sfugge all’azione corrosiva del tempo, facendosi dunque eterna, muore. Similmente, come teorizzato da Barthes, avviene con la fotografia, che, se da un lato rende eterno, dall’altro uccide proprio con la sua forma fissa. La parola poetica, tuttavia, è eterna nel suo morire e rinascere; nel suo tornare sempre ad essere una pagina bianca e il pugno chiuso prenatale. Soltanto così può farsi davvero speranza e alleviare il dolore.
Greta Fantechi
L’“Orfeo nero cantore della Negritudine” Senghor ci ha offerto una poesia rivoluzionaria, seppur, in apparenza, sovranamente digiuna di politica. Attraverso questo viaggio poetico Senghor celebra, con una limpidezza senza pari, il sentimento d’amore verso il proprio continente, ed abbraccia, con il suo “corpo-nazione”, l’intero popolo femminile africano. Il contenuto scandalistico di “Femme noire” non scaturisce, a mio parere, dall’audace, squisito ritratto di un’anonima Venere nera naturalizzata francese, né tanto meno, dalle intorte spirali d’erotismo che sembrano avvilupparsi sui versi del componimento, ma dall’atto di “carità poetica” di Senghor, volto a spezzare quelle catene mentali del pensiero filo-occidentale che costringono la Donna africana alla funzione stereotipata di marionetta dal linguaggio inarticolato, cui rivolgersi con un altrettanto storpiato francese, assoggettata a dinamiche e compromessi da salone parigino degli anni ’30. La “ribellione poetica” di Senghor consiste, infatti, nel “decolonizzare le coscienze”, nell’affermare e nobilitare l’umanità della Donna di colore, elevandola al grado di essere umano e provocando nel lettore bianco quasi una sconcertante sensazione di spaesamento. Come già osservava Sartre: “Noi ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all’improvviso ci appare come una maglia logora, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor”.
Davide Boera
Mario Benedetti. Con lui l’incontro fu molto causale e fu con la sua morte. È quasi stupefacente che alcuni degli autori contemporanei che ho amato di più li abbia conosciuti per il tramite della loro morte. Un’altro fu Riccarelli. La sua poesia sa meditare: “Non ti salvare” che sa di Kavafis, “Mi serve e non mi serve”… La sua poesia sa amare, come in quella postata da Marco e in tante altre… Là la sua poesia sa anche mordere: Mario Benedetti è anche un poeta politico, la cui voce non è attutita nemmeno dalla polvere del tempo, come nella sua rilettura del Padre Nostro. Ma soprattutto la sua poesia sa tirare “Sassolini alla finestra” in quella strenua “Difesa dell’allegria” che in fondo in fondo ricorda un po’ quella del nostro Ungaretti. Un grande poeta, che si apprezza meglio nella pronuncia rioplatense.
Aretusa Obliviosa
Qualche tempo fa l’amico e poeta Giacomo Trinci notava acutamente, durante la presentazione di un libro nella mia piccola Pistoia, come la narrativa toscana sia in genere percorsa a livello tematico e stilistico da una vena di cattiveria tale da costituirne una sorta di file rouge, un’impronta genetica facilmente riscontrabile. È certo a pieno titolo che Federigo Tozzi si inserisce in questa tradizione, e la succitata prosa di “Bestie”, splendida e terribile ne è la prova: la si potrebbe rileggere dieci, venti volte e alla ventunesima avvertiremmo ancora quello strano effetto allo stomaco, quella sensazione difficile da sopportare che ci fa penare per un rospo alla stessa stregua che per una persona. “Uomini e rospi”, come ci fa notare nelle sue belle e memorabili pagine Nicoletta Mainardi parlando appunto dei due amici – ma guarda un po’! – toscani entrambi Viani e Tozzi; proprio così: uomini e rospi, che si scambiano i ruoli fra umanità e crudeltà, fra pittura e scrittura, fra la cifra della dura realtà e l’implacabile tratto espressionistico, fra Viareggio e Siena. Potremmo anche non muoverci di un solo passo, rimanere nel medesimo confondersi di mare, colline e viottoli, limitarci ad alzare lo sguardo verso la lucchesia e il manicomio di Magliano, e ritroveremmo, con uno scarto di solo qualche decennio, una prosa, epica e contemporanea al tempo stesso, non meno scarnificata e crudele, la stessa pennellata espressionistica (che ci sia la complice mediazione delle conterranee “Chiavi nel pozzo”?) negli icastici e indelebili ritratti delle “Libere donne” di Tobino. Una delle poche scritture del novecento, a mio modesto parere, capaci di reggere il confronto della crudeltà col nostro Federigo.
Yumiko Nakajima
Mi sembra che nelle “Bestie” Tozzi fa affidarsi al flusso della coscienza, inserendo il paesaggio senese, racconta memoria con l’umore inerte, e racconta le sue memorie incise nel profondo. All’improvviso appare l’animale e gli insetti, e ci spaventa dal suo modo della descrizione con la crudelta’, sopratutto quello di rospo.
Cesare Blanc
Un componimento, questo di Vincenzo Cardarelli, all’insegna del “Lentamente muore”. Quante volte preferiamo assopirci nel sonno della quotidianità e decidiamo invece di accantonare ogni riverbero di vita. O quante volte ci facciamo da parte per gli altri, reprimiamo il nostro volere per accontentare una persona a noi vicina. Ma quando si ha dentro il desiderio della vita, come vedo espresso in questa preziosa poesia, prima o poi, per quanto si possa far finta di non vederlo, egli verrà a cercarci e finirà col sovrastarci. Anche se il senso non sposa propriamente il motivo cromatico originale palazzeschiano, tale come lo concepiva il buon Aldo si intende, direi che si tratta di un inno al rosso, colore della vita. Non pare un’ipotesi del tutto azzardata, dopo tutto. Infatti, la quotidianità viene qui cromaticamente descritta come il “nero cerchio”. A mio modesto avviso, ritengo che questo periodo di pandemia e conseguente quarantena ci abbia probabilmente messo davanti un’immagine molto similare a quella descritta nella poesia. Avremo provato in tanti e più volte “una smania di non dormire”, ad esempio. Si potrebbe, inoltre, riflettere sul finale “io annego nel tempo”, tema molto caro e che sovente associo a Marcel Proust. Rimandiamo spesso al domani le nostre piccole passioni, desideri, sogni, fino a che il tempo non ci costringe a mettere tutto da parte in maniera definitiva, e il tutto ci urla dentro. A partire da questo componimento di Cardarelli, e l’associazione indiretta con il mare (noto “mi travolgono rumorosi” e “annego”, registro di lingua che mi suggerisce il mare, l’acqua), in un vecchio componimento ho provato a parlare anche io di tempo e di memoria che svanisce e si smeriglia con esso, nei seguenti termini, eccone un piccolo estratto “Un bimbo con le mani sporche / che riempie di acqua il secchiello, / e si intorbidisce di arena. / Ridurre il mare a dimensione umana, / per contemplarlo e far suggello / di quelle onde che si fan tòrte”.
Sabina Candela
Vigore, forza, verità, vita, sensualità… sacro e profano, in Patrizia Valduga, indissolubilmente coniugati, incarnati da una parola che si staglia vivida e ci cattura, poiché da’ il senso del tutto, lo manifesta senza inutili orpelli, riuscendo a rendere straordinariamente ciò che… è!
Giancarlo Giancarli
Nei versi raffinati di Cristina Campo il dolore trapela dall’antitesi, dall’accostamento ossimorico dei termini, e, seppure compostamente e misuratamente espresso non per questo ci appare meno desolato e intenso, meno profondo. Non è poesia facile, quella della Campo, ma una più attenta lettura ci permette di intuire il senso delle immagini, di quel roseo ulivo, di quell’orcio pieno d’acqua; il senso di quella luna del lungo inverno, di quello sdoppiarsi dell’autrice nei due versi finali. E il gelo che prova nella sua lieve tunica è il gelo che avvolge la sua anima appassionata nella solitudine della fine dell’amore.
Artur Spanjolli
Se ci sono due storie che meritano che l’umanità ricordi per sempre quelle sono: Iliade e Odissea. La mente che ha concepito , specialmente la seconda storia, è stata la mente più brillante del narrare umano. Ogni elemento è nel posto che deve essere. Ulisse in via di ritorno. Proci che meritano il castigo. Penelope, eroica e fiduciosa, che non perde mai la speranza, contraria a Elena, ignobile e dissacrale, Ulisse che tutto narra con flashback, Telemaco , cresciuto che cerca il padre. Questa attesa mitica, questo prolungamento sapiente dei fatti, vicino alla finale, sono gli ingredienti grandiosi , per scrivere un ritorno epico, una vendetta sacrosanta, un finale migliore che ogni ingegno umano, ogni vivida e geniale immaginazione può inventare. Nobel per ogni elemento ivi legato gli darei. Questa attesa mitica di Penelope, nel nome del amore, il flusso d’ energia negativa dei proci che premono con la persistente richiesta di comodo: scegli uno di noi. Il re non torna più! Il figlio Telenaco che cerca il suo padre. Il re. Perfino il cane Argo ha una valenza mitologica nella sua attesa di 20 anni, nel riconoscere il padrone e crollare alla fine morto. Quanto può vivere un cane? 17 anni? Omero portando l’età del cane a 21, forse 22, fino al inverosimile insomma, da all’animale più vicino e fedele al uomo una valenza veramente mitica. C’è allora la bestia che non solo non abbandona mai, ma che anche serba l’odore del corpo del padrone, (Ulisse) per più di vent anni nella sua memoria canina. Geniale. Sublime. Omero è senza ombra di dubbio il più grande dei narratori!
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