Pubblicato il 31 dicembre 2020

‘Notizie di poesia’. I commenti più belli 2020 (con una filastrocca di Gianni Rodari)

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari Firenze, 31 dicembre 2020 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi, per ricordare queato non facile 2020 trascorso insieme […]

di Marco Marchi

VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, 1954 , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2020 – Cari amici, ormai è una tradizione! Eccovi, per ricordare queato non facile 2020 trascorso insieme e festeggiare il 2021 in arrivo, con la speranza che l’emergenza che stiamo vivendo vada presto scomparendo, un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie. Un mosaico citazionale che viene ogni anno liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di “commento dei commenti” del nostro blog.

Evviva dunque, con la poesia che con la cultura tutta ci aiuta a vivere, e auguri cordialissimi! Che il 2021 possa essere per tutti noi un anno pieno di serenità e possibilmente di giioia! Sempre in viaggio, sempre mobilitanti, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia nonostante qualche percirsi davvero impervio, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco che illustra questo post suggerisce.

Auguri di cuore con questa propiziatoria, divertitamente svagata ma in fin dei conti saggiamente ragionevole filastrocca di Gianni Rodari; una filastrocca che vale per piccoli e grandi, senza troppe differenze, a partire da stanotte!

Filastrocca di Capodanno

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

A domani, buon anno nuovo!

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2020

Giacomo Trinci
Il “maestro in ombra”, formula pasoliniana che donava a Sbarbaro la sua presenza acuta e precisa nello svolgersi della poesia del novecento, arriva a noi con questa luce di commovente evidenza che proprio l’apparente minorità, l’ombra appunto, alimenta di scoperta continua. Sbarbaro è un caso unico, per la radicalità della sua posizione, di totale identificazione fra la proposta formale di una linea spoglia, di un linguaggio raso, prosastico con una tematica ad esso particolarmente unita: quella dell’aridità spirituale, dell’inerzia umana. La radicalità con cui è perseguita questa posizione in anni in cui ancora l’astro fiammeggiante della lingua di D’Annunzio era ancora il centro egemonico del discorso poetico, instaura quella prosa in poesia che batterà sentieri nuovi nello svolgimento del secolo. Qui, in particolare, nelle poesie al padre, il tessuto “in minore” sbalza una lingua aderente al sentire, umile e potente insieme :radicalmente prosastica quanto pienamente in poesia. Una miscela unica che si assegna ai pochi casi di miracolo nella poesia: l’unicità del sentire è tutt’uno con l’umiltà dell’esprimere in lingua.

Il sipario di questa scena si apre e si chiude con le due parole “antiche” della nostra tradizione lirica: cuore e sospiro. Il sigillo da stil novo dantesco apre la nuova stagione ungarettiana, dopo la frantumazione metrica dell’allegria dei naufragi e la grande stagione dell’avanguardia. Il canto è disteso, ma con tutte le passate incisioni, abrasioni, ferite e rotture, che lo rifanno comunque nuovo. Come tra i versi-relitti, della stagione dell’allegria, era sepolta in alcuni casi la tenuta musicale dell’endecasillabo e del settenario, così in questa apparente ricomposizione metrica e stilistica tipica della seconda stagione di Ungaretti, l’endecasillabo, il settenario, sillaba ansiosamente la propria presenza, sin dal primo verso. La metrica riemerge dalla balbuzie, e la porta in sé: testimone inesausta. Come il figlio, porta in sé la Madre: sua ferita.

Isola Difederigo
Tutto in vista, tutto in piena luce, lo Spirito e la Forma, l’evidenza di ogni cosa creata e il fuoco che l’ha plasmata, in questo incalzante a tu per tu di opera e autore in cui si rinnova e si scioglie per intercessione di Maria la tenzone fra creatura e creatore. Quando scrive questi versi, riflettendo sul cuore pulsante della creazione artistica e poetica, Luzi è un poeta al pari del suo trecentesco alter ego carico di anni e di “dottrina”, giunto sulle tracce dell’imprescindibile Dante al “promesso appuntamento / di luce, di verità immanente…”. Ma anche ora, all’approssimarsi della meta ultima, la poesia di Luzi rilancia nella totalità della preghiera-visione l’immagine di un poeta rimasto sempre fedele alla prima immagine di sé, al sogno d’arte della sua incantata adolescenza senese e ai suoi fervidi vent’anni in ardore di un infinito viaggiare nella corrente della vita. A questo leopardiano poeta della giovinezza, umile e altissimo “principiante” anche nei suoi anni estremi, è dedicato il premio di poesia “Firenze per Mario Luzi” rivolto a quanti, giovani e giovanissimi, sono come lui disposti a credere che scrivere versi sia un modo illimitato di sentire e servire la vita e il suo “perenne desiderio”.

Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta “leggero”. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della “libertà”; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – “E lasciatemi divertire!” – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, “la gente”, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità.

Maria Grazia Ferraris
ll paradosso e l’antitesi come i re della poesia inquieta del grande poeta. La vita come delirio sugli abissi della inutilità e della grandezza: “uno come me dove potrà ficcarsi?” Vladimir Vladimirovic Majakovskij, il grande animatore del Futurismo russo. Lirica tipicamente majakovskiana: voce sonante, sopra le righe, urlate, nel gioco paradossale delle immagini: piccolo come il grande oceano / povero come un miliardario /silenzioso come l’umil tuono / balbuziente come Dante o Petrarca… grande e inutile. La forza delle parole. In realtà è un discorso sulla poesia che riflette su se stessa, sul suo destino e sulla girandola delle metafore che l’accompagnano, sull’ iperbolico uso dell’ossimoro. Anche per lui la delusione storica fu inevitabile a tanta baldanza e fiducia rivoluzionaria, preludio alla sua fatale “resa” con il canto A piena voce, -dedicato ai posteri-, che rappresenta il suo congedo orgoglioso dalla vita e dalle illusioni, ma nessuno saprà come lui con sincerità disarmante costruire un canto così puro e assoluto per l’ideale rivoluzionario, ideale del quale sarà lui stesso vittima predestinata. Nella sua dimensione urlata, ripropone qui una poesia drammaticamente sincera e presaga: “dove mi è apprestata una tana?”. Non gli sarà apprestata, come sappiamo.

Il tema della Notte: la signora dell’Impossibile, “vestito frangiato di Infinito”, il tempo autentico della vita di Fernando Pessoa. È solitudine che sfugge alle infinite maschere che il giorno con le sue contingenze costringe ad indossare, è fusione, splendida ed ammaliante, che sa catturarci “quando tutto è nulla”, consapevoli che “tutto è falso, salvo la tenebra e il silenzio”. I rumori, le voci si disfano nel silenzio, i colori si smorzano, e si intuisce “un’altra luce” e i sogni ci accarezzano, perché li sappiamo senza relazione con ciò che ci può essere nella quotidianità della vita. Notte carica di religiosità, di cui Pessoa adotta le rituali parole della tradizione, specificate nondimeno dalla definizione delle categorie dei deboli angosciati uomini cui si riferisce: “Mater Dolorosa delle Angosce dei Timidi, / Turris Eburnea delle Tristezze dei Disprezzati”. La Notte: un fiore dai tanti petali, consolante, “materna, / infermiera antichissima che ti sedesti /al capezzale degli dei delle fedi ormai perdute”, l’unico conforto alla vita del Poeta.

Antonietta Puri
Considerato da sempre un poeta elegiaco in senso moderno, vale a dire un compositore di versi a carattere autobiografico, incline alla malinconia nostalgica, Attilio Bertolucci ricorda gli ermetici solo perché ne rasenta il linguaggio ma, in realtà si distanzia da questi e si isola anche rispetto agli esiti più considerati della poesia novecentesca, esprimendo una sua originalità che lo fa guardare all’uomo di oggi, schiacciato dalla civiltà e dal progresso non con l’angoscia e il disgusto dei suoi contemporanei, ma con una sorta di contemplazione mistica che lo rende unico tra i molti. In questa poesia bella e commovente, ma di non facile interpretazione, un io parlante è a un passo dalla morte. La mia prima impressione è che sia un uccello a parlare, un uccello che, mentre volava alto, abbattuto da un cacciatore o ghermito da un rapace, sia caduto in una proda erbosa ai margini di un sentiero, e ora chieda alla sua compagna – con la quale stava eseguendo il volo d’amore – di non aiutarlo a sopravvivere, ché solo al tentativo di muovere l’ala, prova orrore a veder fuoriuscire dalla ferita il proprio sangue vischioso. Non c’è disperazione in questa lirica: a me pare una doppia metafora in cui un uccello ferito a morte mentre era al culmine della vita chieda di essere lasciato morire in quella natura che gli fu madre e in cui fu felice e di essere restituito al suo grembo, come è naturale che sia. Quell’ uccello è forse per traslato il poeta che, metaforicamente sanguinando, liberandosi cioè di tutte le scorie, le zavorre, i condizionamenti e i compromessi che impone la vita reale, in uno sfogo con la sua compagna le chieda di lasciarlo libero nella sua scelta catartica, iperbolicamente fino alle estreme conseguenze e di affrancarsi – grazie al necessario sanguinamento – in un luogo puro e lontano dalle scorie di un finto progresso (“scorsoio” lo definirà Zanzotto) in un ritorno a una natura innocente, come innocenti sono ancora le nuove generazioni, i giovani figli che, belli della luce verde che ne illumina i volti, guardano con ottimismo al loro futuro. Perché è solo nella vicinanza con la morte, vera o metaforica che sia, che si ripristina il vero valore della vita.

“Ariel” è indiscutibilmente l’opera più importante di Sylvia Plath e la trentina dei poesie che la compongono furono scritte di getto, come una colata lavica rovente che sembrava non avere fine. Immediatamente la poeta si rese conto di aver finalmente composto il suo capolavoro; di questo fu consapevole anche il marito Ted Hughes che, dando una risposta alla domanda su chi fosse Sylvia e che cosa volesse veramente, vide in lei una disposizione, forse un’esigenza – espressa con furia primitiva – a sacrificare tutto pur di avere una rinascita, attraverso una muta simile a quella dei rettili: il rilascio della vecchia, falsa pelle, alla nascita della nuova, un “io” autentico. Hughes, nella premessa ai Diari della Plath afferma che “Ariel e le altre poesie più tarde danno voce a quell’io” e che “sono la prova del suo avvento. Tutti gli altri scritti…non sono altro che le scorie di questa gestazione”. “Daddy” rappresenta il compendio di tutto ciò che contribuì a creare e a ingigantire la conflittualità di Sylvia con la severa figura paterna, venuta a mancare quando lei aveva otto anni: mancanza vissuta come abbandono e come causa dei rapporti tormentati con le figure maschili e autoritarie della sua vita “…inveisco e m’infurio ancora per la perdita di mio padre, che non ho mai conosciuto; amo terribilmente persino la sua mente, il suo cuore, la sua faccia da diciassettenne. L’avrei amato tanto; ma se n’è andato” (Diari). Ma poi annota:”…non ho mai conosciuto l’amore di un padre, l’amore costante di un consanguineo…, l’unico uomo che mi avrebbe amata con costanza per tutta la vita…Era un orco. Ma mi manca…Odiavo gli uomini perché non stavano lì ad amarmi come padri: avrei voluto bucarli e dimostrare che non avevano la stoffa del padre”. Le ondate di rabbia per futili motivi che spesso l’assalivano e si riversavano in modo incontrollabile sugli altri, specialmente su Ted, solo verso la fine degli anni ’50 Sylvia le imputò al rapporto conflittuale col padre, ma erano dovuti passare tutti quegli anni prima che lei fosse in grado di trovarne le connessioni profonde. La rabbia che provava, tuttavia, era uno stimolo forte alla creatività:” La furia blocca l’esofago e sparge veleno, ma appena mi metto a scrivere, scorre fuori sotto forma di caratteri: scrittura come terapia?”.(Diari).

Duccio Mugnai
L’ho conosciuto sull’autobus a Firenze, David Maria Turoldo, mentre parlava di una necessità di “pacificazione”, quando ero giovane monello e ginnasiale. Non lo capii. Solo diversi anni dopo ho capito quanto era buono, intellettuale poliedrico e profondamente umano. Non si risparmiava nell’aiutare gli umili e i poveri, come nel denunciare la verità anche se questo poteva costargli molto caro. Ho avuto modo, in seguito, di studiare e riflettere sulla sua vita ed anche sull’opera poetica. C’è un afflato salmistico in lui, una volontà di entrare in comunicazione con la bellezza e la piena luce di Dio. Tuttavia, c’è anche la percezione di un baratro, in cui spesso si rischia di cadere a causa della nostra fragilità umana. Mi ha sempre colpito questa sua fede, che scricchiola come la croce di legno di Cristo. D’altra parte, una delle sue più belle e caratteristiche riflessioni riguarda Cristo in croce. Era solito dire che è troppo facile credere ed essere cristiano nel giorno di Pasqua. Bisogna invece misurarsi con il venerdì di passione, quando Gesù in croce grida a Dio, citando il salmo 22 (21), e conosce il silenzio di Dio e la morte.

La solitudine visionaria ed il genio della Dickinson hanno prodotto per noi questo capolavoro di poesia. La morte è gentile, nella sua gelida, incolore, muta impassibilità. Con la morte la Dickinson percorre il viaggio della sua vita, dove tutto ciò, che sembra espressione e esperienza di felicità, le viene negato. Solo questa terribile compagna la congela in un unico attimo di immortalità, che il poeta intuisce esser vero, irripetibile e solo. Per la Dickinson e le sue ossessioni rivelative, c’è solamente la morte, paradossalmente viva, lugubre ed eterna, insieme a lei, nella sua opera lirica. Questo artificioso, distillato prodotto di dolore e genialità giunge a noi lettori come un’apocalisse di vitalità. Ancora paradosso, per noi che leggiamo, e per l’autore, di cui, davvero, si potrebbe parlare di una “piaga rossa languente” come per Campana, o della frase ungarettiana “la morte si sconta vivendo”. Un percepire, un sentire l’efficacia dilaniante e rivelativa delle parole, propri solo dei poeti, come ci fa osservare anche Zanzotto. Nel suo articolo, Marchi sottolinea proprio questo aspetto. Attraverso una depressiva solitudine, immersi nel male dell’esistere, Montale afferma che “solo gli isolati comunicano”.

Davide Boera
Confesso che non conoscevo questa poetessa. A chi ha frequentato le pagine della psicologia del profondo, nello specifico quelle scritte da Hillman, basta la prima strofa. Anzi, i primi due versi. Racchiudono un ribaltamento, il ribaltamento tra il giorno e la notte quale luogo eletto dalla scienza dell’anima. E la notte non può che essere fatta di niente, forse, perché ricolma di simboli. E i simboli non sono codici da decrittare; non sono attesi significati perfetti, ma infiniti significanti e quindi sono niente ma anche tutto. Per questo la notte della Pizarnik non ha spazio per sguardi pieni di interesse, ma per incontri dove, finalmente, “torneremo a essere”.

Mario Benedetti. Anche con lui l’incontro fu molto causale e fu con la sua morte. È quasi stupefacente che alcuni degli autori contemporanei che ho amato di più li abbia conosciuti per il tramite della loro morte. Un’altro fu Riccarelli. La sua poesia sa meditare: “Non ti salvare” che sa di Kavafis, “Mi serve e non mi serve”… La sua poesia sa amare, come in quella postata da Marco e in tante altre… La la sua poesia sa anche mordere: Mario Benedetti è anche un poeta politico, la cui voce non è attutita nemmeno dalla polvere del tempo, come nella sua rilettura del Padre Nostro. Ma soprattutto la sua poesia sa tirare “Sassolini alla finestra” in quella strenua “Difesa dell’allegria” che in fondo in fondo ricorda un po’ quella del nostro Ungaretti. Un grande poeta, che si apprezza meglio nella pronuncia rioplatense.

Damiano Malabaila
Tra le facoltà della poesia c’è anche quella di dar voce ai morti. O meglio, di rendere in immagini palpabilissime i pensieri dei vivi – di quei vivi che sentono più degli altri, i poeti – sul grande mistero che ci attende. La impareggiabile Emily Dickinson lo fa con la sua solita grazia magnetica e devastante: le quartine a ritmo alternato sobbalzanti come il trotto dell’ultimo cavallo, la sua lingua inglese quasi pudica, sobria e democraticamente (come la morte) paratattica, ma allo stesso tempo vibrante dello slancio di un pensiero che tocca le radici della vita.

Ma buttiamo via i tomi dei sofisticati maitres á penser contemporanei e torniamo a leggere Gozzano! Che grande esegeta del desiderio… e che profondità serissima, la sua apparente leggerezza… e poi che grazia, nel superliquefare il nostro Gabriele nazionale!

Pina Speciale
Nella seconda raccolta di Montale “Le occasioni” la memoria costituisce un “filo” attraverso cui il ricordo del passato può condurre ad un’illuminazione, forse ad una salvezza(“il varco”).Ne “La casa dei doganieri” il poeta rievoca una casa a strapiombo sul mare dove una sera ,da giovane, fu felice con Annetta.Il poeta dice con meravigliosa metafora(lo sciame dei pensieri) che la ragazza riempì di sé quella casa con la sua vitalità e gaiezza.Ormai altre esperienze di vita impediscono a lei di ricordare e il poeta è consapevole che solo lui tiene il “filo” della memoria. Chi dei due vive veramente la vita? Lei che segue il mutare degli eventi lasciando alle spalle il passato oppure lui che è ancorato ai ricordi?

framo
Il poeta-giardiniere e la sua opera-fiore, in quanto corpi tra corpi e parti del mondo esistente, condividono la durata fenomenica dell’attimo e la pari condizione di essere elementi di un tutto reale, precedente e successivo alle loro specifiche individualità. La spinta a resistere alla finitudine, però, può proporsi solo per la poesia che, se ben concepita e assecondata nella sua naturale e vigile costruzione – anche se non subito compresa e fortemente osteggiata – potrà aspirare a preservare un valore extratemporale, in ogni tempo e luogo. Proprio ciò che è accaduto all’opera-monumento di questo gigante della poesia universale. Mirabile, imprescindibile Osip Mandel’stam.

“Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Un poeta che si esprime con tale “libertà, naturalezza e preziosa chiarezza” (citando le parole che l’amatissimo Boris rivolse all’amatissima Marina), come può lasciarsi tentare da umana, troppo umana gelosia, al punto da “tentare” di farne il titolo di una sua poesia tra le più celebri? Forse proprio perché è poeta e lo è fino in fondo: una creatura difficile da amare, incapace, forse, di provare quell’amore che si manifesta nelle forme note ai più; un essere infelice e tormentato – ma meraviglioso – che, non potendo non mantenersi fedele a se stesso e alla propria anima, vive di contraddizioni che tenta di risolvere in chiave di passione poetica, in totale obbedienza all’unico amore per cui riesca a nutrire un sentimento autenticamente cristallino e incondizionato. “… Tutta la mia vita è una storia d’amore con la mia anima …”. Anima immensa la tua, Marina Cvetaeva.

Angela Bottari
Ci è data oggi l’occasione per ravvivare memorie scolastiche sopite ma non perdute. Orazio, un poeta ben più profondo e complesso di quanto il suo stile “accessibile” e profondamente umano non faccia immaginare. Il cantore dell'”aurea mediocritas”, della vita semplice ma non banale perseguita attraverso il ritrovato legame con gli affetti e la natura, è anche, come acutamente osservato dal Prof. Marchi, l’autore del manifesto universale della poesia (“Non omnis moriar”); ed è il fine cesellatore di “caratteri” esemplificativi dei comuni difetti (l’inesorabile seccatore, il poeta logorroico), nonché autore di versi ormai radicati nel nostro lessico – “Parva sed apta mihi”, “Nunc est bibendum” e, naturalmente, “Carpe diem”. In qualche modo debitore ad Alceo ma con un intento poetico ben diverso. Non amaramente deluso e disilluso dalla vita come il poeta greco ma piuttosto permeato dalla concreta e consapevole saggezza derivante dalla sua adesione all’epicureismo. Non consultare oracoli, non disperdere le tue energie proiettandoti verso un nebuloso futuro. Piuttosto cogli il giorno presente e assaporane ogni istante, accettando con animo fermo l’ineluttabile finitezza dell’esistenza umana.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall’”uscita chiara”. Poesia sublime, che ci consegna l’incolmabile abisso che separa i vivi dai morti.

Il mare al mattino, nella purezza limpida di un cielo e di un mare vergini così come la natura che circonda il poeta: puri, incontaminati nella luce da poco sorta, non ancora offuscati daila realtà della vita. Ma neanche la pura bellezza del paesaggio marino della sua Alessandria può dare sollievo, se non effimero, al poeta e il ricordo degli amori e dei piaceri trascorsi e perduti per sempre riaffiora incessante. Tra nostalgia, irrealizzabili desideri senili e aspirazione tormentata verso una purezza impossibile, Kavafis, con l’eleganza e la sobrietà che la classicità profondamente introiettata gli ispirano canta il dissidio tra anima e sensi. Aggiungerei che é straordinario come la limpida classicità di Kavafis riesca a coniugarsi con l’inquietudine dell’uomo di oggi: due brevi strofe scandite dall’anafora iniziale, legate da richiami fonici interni, ci spalancano l’ossimoro struggente dell’esistenza, tra luci e ombre, desiderio di catarsi e richiamo dei sensi, percezione d’infinito e finitezza tormentata dell’individuo.
Arianna Capirossi

Nelle poesie e nelle prose qui presentati predomina la nostalgia. La penna sensibilissima di Dina Ferri delinea, con tratti pascoliani e grande partecipazione emotiva, un mondo agreste che non c’è più, l’inesorabile trasformazione delle campagne. Particolarmente suggestivo è il testo sul villaggio di Ciciano: la prima parte, tutta al passato, è volta a ricostruire con le parole “le case rustiche, le viuzze” del villaggio, e a ridare vita ai personaggi anonimi che lo popolavano – i “ragazzi sporchi”, le madri, ma soprattutto l’anziana filatrice con il suo geranio senza fiori. L’impiego dell’imperfetto dà al lettore l’idea di un’atmosfera passata e immobile, sospesa, come quella delle fiabe: la vecchina “filava”, “vestiva un abito nero”, “amava”, “innaffiava”, “narrava”. Eppure, un giorno tutto finisce: la filatrice viene a mancare; l’intero villaggio muta d’aspetto agli occhi dell’autrice. Nella parte finale, concentrata sull’oggi, predominano le negazioni: “non riconosco”, “Questo non è più Ciciano”, “una donna che non conobbi”, “non sorrise”. Il villaggio che era ora non è più, anche se conserva il suo nome. La prosa si conclude con una malinconica metafora: il pianto delle campane, unico elemento del luogo ancora familiare all’autrice.

La durezza degli avvenimenti si riverbera nelle aspre sonorità di “Contro le altere torri” di Mario Luzi: la poesia dipinge davanti agli occhi del lettore la scena d’orrore dell’11 settembre 2001 e invita alla riflessione sul futuro che ci aspetta, concludendo con l’interrogativa diretta “Come?”, colma di angoscia. L’allitterazione della liquida “r”, che caratterizza i soggetti del nefasto evento, gli “aerei” e le “altere torri”, riecheggia lungo l’intero componimento in parole quali “contro”, “rancore”, “sorta di ebbrezza”, “morte”, “creature / sacrificali”, “tenebra”, “soverchiato, oppresso” (attributi dell’animo). Tale allitterazione, associata al significato delle parole in cui ricorre, contribuisce a rievocare il carattere sinistro e lugubre del referente. La medesima figura sonora è presente in “11 settembre”: anche qui parole quali “alterigia”, “torreggiare”, “crollo” e “voragine” risaltano nei versi, caratterizzandoli con i loro suoni ruvidi. La durezza si stempera nei versi finali, in particolare grazie alla rima “preghiera” – “vera”, che impiega il suono della liquida per veicolare, in questo caso, un afflato di speranza. È così che dopo la cupezza di “frenesia di morte” ed “estremo affronto”, il tono della poesia si risolleva, e il suono “r” da ferale si muta in mite vibrazione di un’orazione di pace.

Paolo Parrini
Cosa colpisce in modo così inevitabile della poesia di Rocco Scotellaro, che la fa apparire unica rara e preziosa.Il suo senso sociale, certo, l’impegno civile e umano per il suo Sud.Ma insieme la sua solitudine, la sua disperata distanza dalle sue stesse genti, quel suo quid di sensibilità e di profondo senso poetico che lo allontana mentre lo lega, dagli altri uomini.In questo il suo afflato giunge all’acme, essere vicino , amare e allo stesso tempo essere anche altro.Si dice che il Poeta abbia bisogno degli altri come nessuno, e insieme dagli altri viva una certa distanza.Un senso della morte incombente, l’amore per la sua terra, il rapporto intenso con una madre tanto amata e contemporaneamente così lontana dalla sua psiche troppo bisognosa d’amore.Viene da pensare a quanto Scotellaro avrebbe potuto dare ancora alla Poesia, con doloroso amore come era in lui innato.Restano le sue opere, e il senso di una morte troppo vorace, che ce lo strappò quasi ragazzo, lasciandoci l’amaro sapore della nostra finitezza.

Celan muore suicida, ed era inevitabile forse, che accadesse. perché la sua furiosa frenesia, il suo scrivere del suo dolore e del dolore del mondo aveva dentro il presagio della fine. Quale mente umana può sopportare una simile prova, tutti gli orrori visti e subiti senza perdere la ragione, senza decidere di obliare per sempre ogni bruttura. Forse solo la consolazione di un Dio poteva salvarlo, ma la fede salvifica non è per tutti e non è per tutti i Poeti. Penso a Pavese e alla sua morte, penso a quella di molti altri immensi Poeti e Poetesse come la Plath, la Pozzi, la Rosselli.In questo morire inevitabile di sensibilità accentuate, germogliano perle poetiche inestimabili. Celan lascia meraviglie, dolorose e uniche.”Dice il vero chi parla di ombre”…scrive Celan, le ombre dei morti nei campi di sterminio, il genocidio senza rimedio che non può essere accettato. Oltre questa terra imperfetta e crudele, lo attendeva , forse, la quiete della morte, laddove la sua Poesia potesse correre e librarsi al di là di tutto il dolore, attraversandolo e vincendolo.

Maria Antonietta Rauti
Gozzano come Palazzeschi diventa “un saltimbanco” tra i suoi pensieri, riuscendo ad accostare, tra la musicalità dei versi delle sue quartine, immagini poetiche, sicuro di varcare gli ostacoli della vita. È la parola diventa magia capace di accostare ” i carnevali””ai lutti”. Stupenda e ricca di significato la rima Sapiente con il Niente personificato. Gozzano riesce a “fotografare” il Tempo con una disinvoltura straordinaria che lo immortala tra i grandi Poeti.

Cesare Blanc
Un componimento, questo di Vincenzo Cardarelli, all’insegna del “Lentamente muore”. Quante volte preferiamo assopirci nel sonno della quotidianità e decidiamo invece di accantonare ogni riverbero di vita. O quante volte ci facciamo da parte per gli altri, reprimiamo il nostro volere per accontentare una persona a noi vicina. Ma quando si ha dentro il desiderio della vita, come vedo espresso in questa preziosa poesia, prima o poi, per quanto si possa far finta di non vederlo, egli verrà a cercarci e finirà col sovrastarci. Anche se il senso non sposa propriamente il motivo cromatico originale palazzeschiano, tale come lo concepiva il buon Aldo si intende, direi che si tratta di un inno al rosso, colore della vita. Non pare un’ipotesi del tutto azzardata, dopo tutto. Infatti, la quotidianità viene qui cromaticamente descritta come il “nero cerchio”. A mio modesto avviso, ritengo che questo periodo di pandemia e conseguente quarantena ci abbia probabilmente messo davanti un’immagine molto similare a quella descritta nella poesia. Avremo provato in tanti e più volte “una smania di non dormire”, ad esempio. Si potrebbe, inoltre, riflettere sul finale “io annego nel tempo”, tema molto caro e che sovente associo a Marcel Proust. Rimandiamo spesso al domani le nostre piccole passioni, desideri, sogni, fino a che il tempo non ci costringe a mettere tutto da parte in maniera definitiva, e il tutto ci urla dentro. A partire da questo componimento di Cardarelli, e l’associazione indiretta con il mare (noto “mi travolgono rumorosi” e “annego”, registro di lingua che mi suggerisce il mare, l’acqua), in un vecchio componimento ho provato a parlare anche io di tempo e di memoria che svanisce e si smeriglia con esso, nei seguenti termini, eccone un piccolo estratto “Un bimbo con le mani sporche / che riempie di acqua il secchiello, / e si intorbidisce di arena. / Ridurre il mare a dimensione umana, / per contemplarlo e far suggello / di quelle onde che si fan tòrte”.

Marco Capecchi
Chi è l’uomo nero di Esenin? La fine di ogni illusione, di ogni speranza di riscatto. La consapevolezza di una vita spesa per una Rivoluzione che rinnega se stessa.L’intuizione della tragedia che ormai incombe sul Poeta che come ogni Poeta paga per la propria generosità,ingenuità, ma pure grandezza e profondità. L’uomo nero è lo stalinismo che come ogni totalitarismo non sopporta la Poesia riducendola a propaganda menzognera. Una guerra impari in cui il vincitore,paradossalmente, è la vittima momentanea ovvero il Poeta che ancora possiamo leggere con commozione, partecipazione e gratitudine.

Tozzi non rabdomante, ma scrittore consapevole della propria arte. Il suo misurarsi con la cultura europea ne è, assieme alle letture fatte e testimoniate, una prova incontrovertibile. Dispiace che questo centenario della morte passi senza un approfondimento e uno scavo su uno acrittore che ad ogni reiterata lettura offre spunti di riflessione e appare sempre moderno e contemporaneo. Quasi scrittore asintotico nel senso che illumina e non si fa raggiungere.

Roberta MestrelliBerti
Ognuna di queste poesie di Sibilla Aleramo sembra un inno alla solitudine: è l’amore che manca, manca il suo calore…! E tutto sembra fare eco al quel senso di freddo e di malinconia: la rosa bella e bianca fiorita nel gelo, il lamento del mare, la città che grida ma la esclude, la luna nel cielo d’inverno…

Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso il quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di “oggettività d’ammirazione”, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta e scrittore della semplicità stilistica, riecheggiante una cadenza pascoliana. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.

Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al maturo “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – che solo nella vita ma amato dai colleghi ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Lorenzo Dini
È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.

Nella “Chimera” di Dino Campana il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Tirreno
A mio avviso uno dei grandi della poesia italiana del Novecento, Caproni. Sincero e struggente nella prima parte del suo scrivere, direi fino al “Seme del piangere del 1959”. Più criptico dopo, ma non mai meno ispirato. Interessante anche l’impegno ecologico, che enunciato in un periodo assai precedente dalla odierna sensibilizzazione assume quasi toni profetici. Eppure parlò sempre a voce sommessa

Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l’unica vera compagna di Pavese. Quel “vizio assurdo” che suscita in lui un’irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine, che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all’assenza, all’incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell’oblio.

Greta Fantechi
Sotto la descrizione poetica di un paesaggio che muta, preannunciando l’arrivo della primavera, si cela una “terra embrionale dell’anima”, popolata da immagini lontane, che si materializzano davanti agli occhi del Poeta: è il tema dello scorrere del tempo, che spazza via, inesorabile, “mozziconi di vita”, l’elemento cardine della poesia: una Primavera personificata – una Natura che si fa allegoria della Giovinezza – è, infatti, la stagione del cuore in cui Machado si trova a correre in soccorso di anni ormai perduti, con l’eco di un carpe diem finale (pervaso forse di speranza) che implora un ultimo invito a strappare l’attimo dal tempo (¡Juventud nunca vivida, / quién te volviera a soñar!). “La Primavera besaba” rappresenta per me – seppur attraverso uno sguardo nostalgico rivolto al passato – anche una potente celebrazione della forza della vita, che si rinnova ciclicamente, così come si rinnovano le stagioni.

L’“Orfeo nero cantore della Negritudine” Senghor ci ha offerto una poesia rivoluzionaria, seppur, in apparenza, sovranamente digiuna di politica. Attraverso questo viaggio poetico Senghor celebra, con una limpidezza senza pari, il sentimento d’amore verso il proprio continente, ed abbraccia, con il suo “corpo-nazione”, l’intero popolo femminile africano. Il contenuto scandalistico di “Femme noire” non scaturisce, a mio parere, dall’audace, squisito ritratto di un’anonima Venere nera naturalizzata francese, né tanto meno, dalle intorte spirali d’erotismo che sembrano avvilupparsi sui versi del componimento, ma dall’atto di “carità poetica” di Senghor, volto a spezzare quelle catene mentali del pensiero filo-occidentale che costringono la Donna africana alla funzione stereotipata di marionetta dal linguaggio inarticolato, cui rivolgersi con un altrettanto storpiato francese, assoggettata a dinamiche e compromessi da salone parigino degli anni ’30. La “ribellione poetica” di Senghor consiste, infatti, nel “decolonizzare le coscienze”, nell’affermare e nobilitare l’umanità della Donna di colore, elevandola al grado di essere umano e provocando nel lettore bianco quasi una sconcertante sensazione di spaesamento. Come già osservava Sartre: “Noi ci sentiamo come esclusi, come se queste parole, che non ci sono destinate assolutamente, le origliassimo dalla porta e come se questa donna nuda la spiassimo dal buco della serratura. E anzi, addirittura la nostra bianchezza, di cui andavamo tanto fieri, all’improvviso ci appare come una maglia logora, ai gomiti e alle ginocchia, e se potessimo ce la toglieremmo per scoprire la nostra carne di vino nero, un altro verso di Senghor”.

tristan51
Che bel poeta Heaney! Un’amica molto sensibile e intelligente mi ha fatto una volta notare l’irresistibile comunanza, o per meglio dire la stretta fratellanza delle menti umane che vige al di là dei confini spazio-temporali. Così, nel rievocare al presente gli avi amati che dissodano la terra, rivivendone i gesti con la penna fra le dita, ecco che il poeta Seamus Heaney rimanda in una sua celebre compoizione, “Digging”, forse senza volerlo, a un’immagine ancor più antica e genuinamente italiana: “Se pareba boves/ alba pratalia araba/ et albo versorio teneba/ et negro semen seminaba” (Indovinello Veronese).

Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materassi”) quando sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili». La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte.

Ferruccio Palmucci
Chi, come me, conserva da decenni nel cuore la musica di “Musa, quell’uom di multiforme ingegno/Dimmi, …” ha dovuto fare un certo sforzo per adeguarsi alle moderne traduzioni delle opere di Omero. Ma, una volta “passato il guado”, il piacere della nuova lettura non è stato inferiore a quello procuratomi dalla versione di Pindemonte, a parte l’emozione vissuta, nel lontano tempo della giovinezza, nel comune stupore di un’aula scolastica. Ho letto la versione di Rosa Calzecchi Onesti e l’ho trovata eccellente, ricca di immagini che gli conferiscono leggerezza, colore e ritmo nella misura giusta per non diventare una traduzione meramente letterale, solamente fedele al testo. Qui il brano, tra i più struggenti dell’intero poema, si avvale della sensibilità di una poetessa innamorata dell’Odissea fin dall’adolescenza, arricchita dalla cultura e dalla buona conoscenza del greco. L’intero libro XI possiede una straordinaria intensità umana e, in particolare, per la loro pietà e la drammaticità, i versi riguardanti l’incontro di Odisseo con la madre, di cui la Bemporad ci offre una parte della sua versione poetica. Odisseo consente alla madre, che beve il sangue nero, di riconoscerlo e subito inizia un dialogo straziante fra figlio e genitrice fatto di richieste di notizie, di risposte riguardanti il destino della famiglia, tutto descritto con accenti altamente tragici e dolorosi, segnati dalla stupenda immagine di Odisseo che per tre volte tenta di abbracciare la madre e per tre volte lei gli vola via dalle braccia come un’ombra. La traduzione della Calzecchi Onesti è molto efficace, ma nella versione della Bemporad il dolore e la pietà diventano poesia. E qui bisogna accennare al fatto che, essendo la poesia “intraducibile”, non c’è nessuno che, meglio di un poeta, ne possa fare una traduzione. Infatti qualunque parola di un linguaggio può essere tradotta in un altro linguaggio adeguandone il senso logico, ma le parole poetiche contengono immagini che andrebbero tradotte in parole contenenti le medesime immagini. Voglio dire che, più che il mero significato della parola, è il suo “quid” indicibile, irrazionale, che deve essere tradotto. Alla creatività poetica originale dovrebbe corrispondere un’altra creatività poetica espressa in un linguaggio diverso. Insomma il solo traduttore di un poeta non potrebbe essere che un altro poeta. Mi rendo conto che sto facendo un discorso accademico. Dove troveremmo un altro poeta per tradurre l’Odissea che sia all’altezza di Omero? Poeta come Omero? Eppure, in questo brano la Bemporad ci offre un bell’esempio di traduzione da poeta a poeta.

Un grande talento poetico stroncato in giovanissima età, ma non abbastanza da non lasciarci perle di lirica bellezza e un sentimento mistico della natura. Cuore della poesia di Dina Ferri è infatti il sentimento della natura vissuto come inquieto piacere ed estatico abbandono; una simbiosi perfetta con l’ “Anima Mundi” di cui tutti gli esseri sono parte inconsapevole, ma alla cui dimensione inaudita i poeti, in virtù di un “miracolo”, accedono con parole ed immagini che nessuna parola o immagine conosciuta saprebbe ridire. Lo stupore della Ferri dinanzi alla natura è la felicità di chi sente “sommesso, un coro di voci cantare al cielo e al sole” e vuole “rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.” Ma è anche lo stupore per il mistero che altre voci evocano in lei quando “fugge nella notte nera/ …per ascoltare il vento e la bufera”; quando ammira “le stelle nella notte scura” e “trema di freddo e di paura”; quando vorrebbe passare per “l’incognito sentiero …fuggir per valli” e attendere a sera il ritorno delle greggi mentre “piange la bufera.” Immagini che rimandano al cuore dell’arcano universo che batte all’unisono col cuore degli uomini e che comunica il brivido di trepidanti emozioni. La poetessa pastorella, voce di quell’ “Anima mundi” che così bene ha trovato in lei l’espressione del proprio infinito, chiederà, forse presagendo la fine, “a le stelle del cielo turchino,/ a la notte vestita di nero” l’ignota ragione del proprio destino, “il ritorno alla luce che fu.” Ma la risposta sarà: “Mai più!” Un destino crudele reciderà questo fiore sublime all’età di 22 anni con un’insensatezza che non troverà mai una spiegazione plausibile. Gli uomini sono destini, tutti diseguali nel dolore e nella gioia, nella vita e nella morte, tutti assurdi. Degli uomini restano le opere, alcune immortali, come la poesia, voce dell’infinito che è in noi, che proviene dal mondo dell’indicibile al quale forse, come fu detto per la dimensione divina, nessuno può accedere e rimaner vivo

Giulia Bagnoli
La quartina è il simbolo di questo duo erotico dove la donna tiene le fila del discorso poetico. Abbiamo nel testo di Patrizia Valduga una coppia doppia che giustifica la quartina: un uomo e una donna; il linguaggio e il corpo. Prima dei corpi abbiamo il linguaggio, qui sempre provocatorio, tanto da far apparire l’incontro amoroso come una grottesca farsa. Ricordiamo l’incipit di “Medicamenta”: “Sa sedurre la carne la parola, / prepara il gesto, produce destini…”.

Ecco, in Cristina Campo, il paradosso della poesia che mentre sfugge all’azione corrosiva del tempo, facendosi dunque eterna, muore. Similmente, come teorizzato da Barthes, avviene con la fotografia, che, se da un lato rende eterno, dall’altro uccide proprio con la sua forma fissa. La parola poetica, tuttavia, è eterna nel suo morire e rinascere; nel suo tornare sempre ad essere una pagina bianca e il pugno chiuso prenatale. Soltanto così può farsi davvero speranza e alleviare il dolore.

Antonella Bottari
Tutti i fanciulli del mondo. Anna Frank, condannata all ‘esilio in una soffitta, per anni di silenziosa vita, privata della gioia di vivere, dei sentimenti e delle azioni che pomuovono la vita dell’adolescente, la quale è costretta a crearsi un mondo fatto di vibrazioni di angoscia, di risate soffocate, di difficoltà ambientale, di crescita. I rapporti conflittuali tra sé e gli altri, l’amore per la vita. Lo stesso amore che a Pompei, all ‘inizio del primo secolo, spinge una fanciulla ad avvinghiarsi al corpo materno in cerca di una possibilità di rinascita, mentre le ceneri acri del vulcano le mozzano il fiato e la privavano del soffio vitale. E tutti i bambini di Horoshima, smaterializzati in un angolo di cenere. Quanto orrore nel mondo in nome di un ideale contorto ed aberrante!
Fatta salva l’eruzione del Vesuvio, tutto naturale e pertanto imprescindibile, tutto il resto è opera dell’uomo. Un uomo, che perdendo il segno etico e la misura causa – effetto, si macchia di colpe efferate in nome dell’odio. Tutto questo scrive Primo Levi con ritmo incalzante e rammemora di se stesso e della vita nei campi di sterminio. Sei milioni di Ebrei lo hanno sperimentato sulla loro pelle, sulla loro dignità calpestata, sulla loro vita annientata. E chi non morì nei campi della barbarie, dell’infame crudeltà, non resse, come il Nostro, che per esser vivo dovette scegliere di porre fine ai suoi giorni. Ma prima di andarsene lasciò in noi vibrante testimonianza, monito intransigente della coscienza; nessuno mai dimentichi.

Una realtà enigmatica e perciò stesso ostile, una realtà mossa da un’irridente energia, che mimetizza le disarmonie e le sofferenze della vita. Questo è il mondo di Sylvia Plath, Lady Lazarus, che si rivolge a questo coagulo d’esperienza con l’aria e il piglio di una donna pronta alla sfida finale: in cuor suo sa d’essere diventata invincibile, la sua profetica parola ha sconfessato ogni finzione e ciò la rende eterna. Eternamente viva, ancora e sempre si libererà dal peso delle esperienze negative vissute con la percettibilità dei sensi: i nauseanti odori, gli occhi stanchi per aver visto la mostruosità di una vita che abbrutisce l’anima, il dolersi e mordere la propria coda per quel senso di sospensione e di non appagamento, l’inutilità del linguaggio che non porta comunicazione e partecipazione, ma solo fraintendimento, saranno finalmente solo un ricordo. Il “sepolcro”, la fine di una vita, così tremendamente snaturata e squallida, sarà smascherata da una donna che ogni volta tornerà a sorridere, fiera, libera, simbolo della verità conquistata nel sacrificio. E ancor più può sorridere, perché le son bastati appena tre decenni, per svelare e rappresentare l’orrido vero. Sul palcoscenico della vita si sviluppa un doppio dramma, quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, e quello degli uomini sciocchi e curiosi, una folla impersonale che non muta in alcun modo l’ inferno morale nel quale lei si trova. E agli astanti si rivolge, ribadendo d’essere sempre la donna animata dal desiderio di cogliere la verità: e a nulla varrebbe risorgere in altro corpo, perché nessuno la individuerebbe. Così che un gesto eccezionale e anormale che verrebbe catalogato come insano atto derivante da una follia circoscritta, diventa espediente per ricordare e risvegliare l’attenzione; quello di Sylvia Plath, Lady Lazarus, è un sacrificarsi, un far discutere sul perché delle sue scelte, che diventano simbolo di una genialità eccezionale, che sorge e si manifesta in differenti modi, anche quelli più strani. Su queste basi la ripetitività ossessiva, quasi maniacale, che appare come una condanna, resta l’unico mezzo logico-razionale per lanciare un messaggio di fede e di speranza. Sylvia Plath, Lady Lazarus, non recita una parte, si fa ed è personaggio tragico, è la creatura che deve consumare necessariamente il suo gesto, come se il suo fosse un atto cerimoniale che sorge da manifestazioni miracolistiche. E lei attende il suo pubblico, aspetta che la platea si riempia, che tutti osservino il momento del suo morire e risorgere dal fondo del teatro, con lo stesso corpo, solo con qualche cicatrice in più. È nel suo morire e risorgere che Sylvia Plath, prende coscienza d’essere fatta della stessa sostanza divina, e come il Cristo si ripropone, affronta un’ennesima prova, quella più impegnativa, per la quale il suo io si scontra con il silenzio e l’assenza d’ogni risposta. E, dalle polveri incenerite di un sentimento e di una fede, Sylvia Plath, declama il suo avvertimento, la sua promessa di un ciclico ritorno, un ritorno d’amore, lo stesso amore divino che alita sul mondo, perché il respiro s’accenda.

Giancarlo Giancarli
Nei versi raffinati di Cristina Campo il dolore trapela dall’antitesi, dall’accostamento ossimorico dei termini, e, seppure compostamente e misuratamente espresso non per questo ci appare meno desolato e intenso, meno profondo. Non è poesia facile, quella della Campo, ma una più attenta lettura ci permette di intuire il senso delle immagini, di quel roseo ulivo, di quell’orcio pieno d’acqua; il senso di quella luna del lungo inverno, di quello sdoppiarsi dell’autrice nei due versi finali. E il gelo che prova nella sua lieve tunica è il gelo che avvolge la sua anima appassionata nella solitudine della fine dell’amore.

Pietro Paolo Tarasco
L’esser nato in una città di sconvolgente bellezza come Praga, penso che per un grande poeta come Seifert, sia stato una fortunata e straordinaria coincidenza. L’ha decantata come meglio ha potuto; quel grande amore per la città natia, metaforicamente, l’ha commisurata all’amore che si dona alla donna più amata. Solo chi ha avuto la “fortuna” di percorrere le buie e deserte stradine nella magica Praga di alcuni decenni fa, potrà veramente immergersi nella poetica così intima di Seifert. La sua unicità poetica mi ha portato immediatamente alla memoria un suo caro amico, anch’egli praghese, chiamato “Il poeta di Praga”. E’ il fotografo realista e romantico Joseph Sudek. L’hanno amata e decantata con la stessa incommensurabile bellezza, l’uno con sublimi versi e l’altro con straordinarie immagini. Ringrazio il Prof. Marchi per aver pubblicato questi bellissimi versi che mi hanno riportato immediatamente nei ricordi di una città di inebriante e indimenticabile bellezza.

Rosalba de Filippis
“Scolpire ” “Lignificare” “Fissarne” ancora “Scolpire” , infine:”dire” il mare. Il materiale forse per eccellenza per Caproni in quanto di una maestosita’ e di una vitalita’sfuggenti. Dire e scolpire il mare : una grande sfida. La’dove la parola per Caproni tende a fissare, a “dissolvere l’oggetto” , la stessa consistenza materica delle cose. La scrittura aforistica di “Res amissa”, sara’ infatti ‘il punto di approdo di una riflessione sul potere erosivo della parola; riflessione che fa di Caproni uno dei piu’importanti poeti del Novecento.

Aretusa Obliviosa
Qualche tempo fa l’amico e poeta Giacomo Trinci notava acutamente, durante la presentazione di un libro nella mia piccola Pistoia, come la narrativa toscana sia in genere percorsa a livello tematico e stilistico da una vena di cattiveria tale da costituirne una sorta di file rouge, un’impronta genetica facilmente riscontrabile. È certo a pieno titolo che Federigo Tozzi si inserisce in questa tradizione, e la succitata prosa di “Bestie”, splendida e terribile ne è la prova: la si potrebbe rileggere dieci, venti volte e alla ventunesima avvertiremmo ancora quello strano effetto allo stomaco, quella sensazione difficile da sopportare che ci fa penare per un rospo alla stessa stregua che per una persona. “Uomini e rospi”, come ci fa notare nelle sue belle e memorabili pagine Nicoletta Mainardi parlando appunto dei due amici – ma guarda un po’! – toscani entrambi Viani e Tozzi; proprio così: uomini e rospi, che si scambiano i ruoli fra umanità e crudeltà, fra pittura e scrittura, fra la cifra della dura realtà e l’implacabile tratto espressionistico, fra Viareggio e Siena. Potremmo anche non muoverci di un solo passo, rimanere nel medesimo confondersi di mare, colline e viottoli, limitarci ad alzare lo sguardo verso la lucchesia e il manicomio di Magliano, e ritroveremmo, con uno scarto di solo qualche decennio, una prosa, epica e contemporanea al tempo stesso, non meno scarnificata e crudele, la stessa pennellata espressionistica (che ci sia la complice mediazione delle conterranee “Chiavi nel pozzo”?) negli icastici e indelebili ritratti delle “Libere donne” di Tobino. Una delle poche scritture del novecento, a mio modesto parere, capaci di reggere il confronto della crudeltà col nostro Federigo.

La poesia di Campana è molto culturalizzata. È un magnifico ponte, una sintesi eccellente tra antico e modernità. Penso al ritmo cantilenante reso dalla continua iterazione e ripetizione anaforica che fa del linguaggio poetico quasi un rito iniziatico, misterico, premonitore… E ben si adatta a questo stile un tema senza tempo come la morte, nel caso specifico dolce fanciulla che al tempo stesso culla il poeta e si fa compagna delle tenebre e dell’oscurità. E come D’Annunzio invita Ermione ad “ascoltare” la magia della pioggia, qui Campana estende il medesimo invito all’ascolto di una dimensione spirituale e primigenia, che diviene una cosa sola col sopraggiungere della notte. La sua voce non si fa attendere: l’onomatopeico “più” del poeta notturno non può non evocare il pascoliano “chiù”, o il “nevermore”di Poe. Eppure, nonostante gli evidenti rimandi letterari, il lettore resta meravigliato dinanzi al canto ispirato di un poeta la cui importanza ancora oggi non mi risulta riconosciuta.

Yumiko Nakajima
Mi sembra che nelle “Bestie” Tozzi fa affidarsi al flusso della coscienza, inserendo il paesaggio senese, racconta memoria con l’umore inerte, e racconta le sue memorie incise nel profondo. All’improvviso appare l’animale e gli insetti, e ci spaventa dal suo modo della descrizione con la crudelta’, sopratutto quello di rospo.

Artur Spanjolli
Se ci sono due storie che meritano che l’umanità ricordi per sempre quelle sono: Iliade e Odissea. La mente che ha concepito , specialmente la seconda storia, è stata la mente più brillante del narrare umano. Ogni elemento è nel posto che deve essere. Ulisse in via di ritorno. Proci che meritano il castigo. Penelope, eroica e fiduciosa, che non perde mai la speranza, contraria a Elena, ignobile e dissacrale, Ulisse che tutto narra con flashback, Telemaco , cresciuto che cerca il padre. Questa attesa mitica, questo prolungamento sapiente dei fatti, vicino alla finale, sono gli ingredienti grandiosi , per scrivere un ritorno epico, una vendetta sacrosanta, un finale migliore che ogni ingegno umano, ogni vivida e geniale immaginazione può inventare. Nobel per ogni elemento ivi legato gli darei. Questa attesa mitica di Penelope, nel nome del amore, il flusso d’ energia negativa dei proci che premono con la persistente richiesta di comodo: scegli uno di noi. Il re non torna più! Il figlio Telenaco che cerca il suo padre. Il re. Perfino il cane Argo ha una valenza mitologica nella sua attesa di 20 anni, nel riconoscere il padrone e crollare alla fine morto. Quanto può vivere un cane? 17 anni? Omero portando l’età del cane a 21, forse 22, fino al inverosimile insomma, da all’animale più vicino e fedele al uomo una valenza veramente mitica. C’è allora la bestia che non solo non abbandona mai, ma che anche serba l’odore del corpo del padrone, (Ulisse) per più di vent anni nella sua memoria canina. Geniale. Sublime. Omero è senza ombra di dubbio il più grande dei narratori!

Chiara Scidone
Ancora ricordo quando i programmi televisivi si interruppero, l’11 settembre del 2001, per annunciare l’attacco delle torri gemelle a New York. Io stessa ho visitato il ground Zero, quella piazza, un vuoto enorme, un cimitero a cielo aperto. La tristezza e il dolore anche a distanza di anni sono sempre nell’aria. Questa poesia di Luzi ci aiuta a ricordare l’avvenuto invitandoci ad accantonare l’alterigia e a conseguire la pace, tutti insieme. Una poesia che ci porta ad avere speranza che disgrazie come questa non succedano più.

Una descrizione degli inferi, quella di Rilke, molto dettagliata, un Orfeo che cammina muto e impaziente di riavere la sua amata, sapendo di averla a pochi passi. Ma ormai lei è diventata parte integrante degli inferi, così tanto che quando lui si gira, non lo riconosce. La morte ha vinto di nuovo, purtroppo per l’ennesima volta ha avuto la meglio sulla vita.

Sabina Candela
Vigore, forza, verità, vita, sensualità… sacro e profano, in Patrizia Valduga, indissolubilmente coniugati, incarnati da una parola che si staglia vivida e ci cattura, poiché da’ il senso del tutto, lo manifesta senza inutili orpelli, riuscendo a rendere straordinariamente ciò che… è!

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