Firenze, 1 febbraio 2024 – Vincono ex aequo, per il mese di gennaio 2024, con un’ampia messe di commenti, Giorgio Caproni e Patrizia Valduga, rispettivamente con L’amore d’inverno. Giorgio Caproni e Il Requiem di Patrizia Valduga. Meritatissimo secondo gradino del podio a Carlo Betocchi (Anniversario Carlo Betocchi). Al terzo posto ancora poesia italiana, e ancora con una partecipazione al femminile, con il bronzo assegnato alla brava Cristina Campo grazie al post La clessidra capovolta. Cristina Campo. Ne deriva un quartetto ben bilanciato di validissimi autori italiani, con quattro testi tra loro molto diversi ma tutti di indiscusso fascino, che la vostra sensibilità e la vostra intelligenza di lettori affezionati non hanno esitato ancora una volta a rilevare.

Tra i commenti su Patrizia Valduga che oggi omaggiamo segnaliamo quelli di Damiano Malabaila, Maria Grazia Ferraris e Giulia Bagnoli. Rispettivamente: “Eccola, Patrizia Valduga: coltissima (quanti di noi sono inciampati su “irredimita”?) ma non libresca; se citazionale, mai sofisticata e comunque originale nelle nuove tramature; e soprattutto, stupefacente auscultatrice del “guazzabuglio” che abbiamo dentro. La sua poesia ci sorprende sempre: sa essere allo stesso tempo eterea e corporale, libera e legata (“religata”), morbida e lancinante, arcaica e futura…”; “Requiem. Patrizia Valduga: voce monologante e dolore, corpo e anima totalmente coinvolti, fusi in un’unica voce: il lamento angosciato per la morte del padre, dichiarazione d’amore e d’impotenza: “Oh, prima ch’io ritorni là con te,/fammi avere qualcosa da portare,un piccolo qualcosa dentro me,/e non quest’ansia sola, e questo ansare./ Fa’ che possa portarti dentro me/ qualcosa perchè possa ritornare/ e dirti, padre: «Vedi che ho vissuto:/in me il tuo cuore, no, non si è perduto». Poesia di crudo dolore e nel contempo di terapia del dolore, farmaco, veleno che è medicina, invocazione e richiesta d’aiuto (ché vivo come ai piedi di me stessa), dove l’aulico e il quotidiano, il sublime e il rimembrare dolente, si coniugano e si contaminano. Un affascinante, dolorante e per molti aspetti imprevisto “Requiem”. Sicuramente uno dei più riusciti e coinvolgenti canti sul tema della morte del padre”; “Requiem non è soltanto la storia, e il ricordo, di chi non c’è più, della straziante morte del padre, ma anche quella della parola che resiste; della scrittura contro l’agonia, che si fa, anno dopo anno, resistenza alla morte. La parola poetica lotta contro il silenzio e tenta di raggiungere ogni volta un mondo “altro”. Questa è infatti un’opera in in fieri, dove ogni anno, dal 1992 al 2001, una nuova ottava si aggiunge alle altre, come un ritorno rituale, un appuntamento, dove la poetessa rende conto al padre della propria vita. La poesia si fa, dunque, resistenza alla morte e diventa l’unica arma di chi resta. La poetessa, invocando il padre, racconta anche la propria inadeguatezza ad essere figlia, come possiamo notare nei versi “Se ti avessi ascoltato quella volta, / io cocciuta, cocciuta ed incosciente”, e ad essere una donna, come quando scrive “Ma la maturità perché mi è tolta? / Papà, io vivo vergognosamente / vecchia e malata e sempre adolescente”. La figlia implora il padre perché l’aiuti a rinascere (Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore, / fammi uscire da me, fammi trovare / favole di pietà, versi d’amore…) e a trovare dei versi d’amore in grado di darle un po’ di pace; a trovare sempre la parola poetica, quella che, talvolta, si “perde e mente”, perché per la poetessa è, ora più che mai, l’unico e ultimo conforto”.

Brava Patrizia! Complimenti!

Marco Marchi

Il Requiem di Patrizia Valduga

VEDI I VIDEO  “Requiem”, Patrizia Valduga dice suoi testi Archivi del Premio Letterario Castelfiorentino: Patrizia Valduga si racconta, prima parte (con un sonetto di Petrarca) ,  … e seconda parte , Il sonetto “Donna bambina ma di troppe brame” detto da Patrizia Valduga

Firenze, 19 gennaio 2024 – Presenza poetica di assoluto rilievo nel panorama letterario contemporaneo, poetessa naturalmente dotata e colta, Patrizia Valduga ha fatto della poesia fonte di piacere e terapia per attutire il dolore mediante la musicalità dei ritmi e dei suoni appannaggio dell’esercizio lirico. Attraverso una personalissima ricerca stilistica iniziata con Medicamenta (Guanda 1982), lo sbaragliante libro d’esordio, la poetessa ha affrontato – inserendosi da protagonista in un contesto storicamente allargato ed efficiente – la crisi del linguaggio poetico moderno, riuscendo a conferirgli nuova dignità letteraria grazie a un deliberato, originale recupero delle forme più illustri della tradizione: sonetti, madrigali, sestine, ottave e terzine. A tale recupero la Valduga ha abbinato, con esiti sorprendenti, la ricerca di un’espressione in cui l’antico e il moderno, l’aulico e il quotidiano, il sublime e il volgare, si coniugano e si contaminano.

Dopo La tentazione (Crocetti 1985) e i testi aggiunti di Medicamenta e altri medicamenta, il monologo in endecasillabi Donna di dolori (Mondadori 1991) conferma tra poesia e teatro questa strenua vocazione al canto d’ispirazione erotico-funeraria. Diverso il tono di Requiem (Marsilio 1994, poi Einaudi 2002), poemetto in ottave scritto per la morte del padre, dove l’esperienza immanente della morte volge l’originaria fascinazione manieristica della dizione poetica nella misura di una naturale, addolorata e sconvolta effusività.

Con le raccolte successive, Cento quartine e altre storie d’amore (Einaudi 1997), Quartine. Seconda centuria (Einaudi 2001), il poemetto Manfred (con la collaborazione del pittore Giovanni Manfredini, Mondadori 2003), Lezione d’amore (Einaudi 2004), si riattiva in forme metriche sempre più elaborate la schermaglia della scrittura. In Corsia degli incurabili (Garzanti 1996, raccolto in Prima antologia, Einaudi 1999, e al pari di Donna di dolori rappresentato in teatro) è di scena un malato terminale che dal suo letto di ospedale dà voce ai propri pensieri nel metro del sirventese classico, raccontando tra l’invettiva e la preghiera, la confessione e lo sdegno, la degradante attualità del nostro paese, la corruzione delle istituzioni, la decadenza della cultura e della lingua.

Nel 2006 la Valduga firma la Postfazione a Ultimi versi di Giovanni Raboni, che comprende le poesie composte nell’estate del 2004, durante la malattia del poeta. Sono i “versi veri e vivi” che aprono il Libro delle laudi (Einaudi 2012), un nuovo intenso canzoniere che rilancia sulla scia dei laudari antichi il furor sacro di una moderna coscienza poetica. Recentemente apparso, infine, dopo le Poesie erotiche del 2018, il poemetto Belluno (2019, ambedue Einaudi).

Patrizia Valduga ha inoltre curato l’antologia Poeti innamorati. Da Guittone a Raboni (Interlinea 2011) e il Breviario proustiano (Einaudi 2011). Notevole la sua attività di traduttrice, da Mallarmé, Valéry, Molière, Donne, Céline, Kantor, Shakespeare, Pound. Ha ricevuto premi e riconoscimenti, tra i quali il Premio Viareggio, il Premio Betocchi, il Premio Castelfiorentino e ultimo, a Pistoia, il Premio Maddalena Morelli ‘Corilla Olimpica’.

Marco Marchi

da Requiem

Ah Signore pietà, Cristo pietà,
per quest’anno di vita irredimita,
del suo sangue nel mio sangue, pietà,
della carne nella terra incarnita
fino a ansimare, per pietà, pietà!,
che vivo la sua vita seppellita,
che vivo inutilmente e inutilmente,
e la parola mi si perde o mente.

Ah padre mio, non faccio che tremare,
e stare dentro me col mio dolore,
piangermi in te, piangermi in te e tremare.
Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore,
fammi uscire da me, fammi trovare
favole di pietà, versi d’amore…
Versi d’amore come ai miei vent’anni!
Padre, il mio cuore compie oggi due anni.

Oh, prima ch’io ritorni là con te,
fammi avere qualcosa da portare,
un piccolo qualcosa dentro me,
e non quest’ansia sola, e questo ansare.
Fa’ che possa portarti dentro me
qualcosa perchè possa ritornare
e dirti, padre: «Vedi che ho vissuto:
in me il tuo cuore, no, non si è perduto».

«Patrizia, adesso basta! Per favore.
Vuoi farla eterna quella stomatite?
E la tua forza d’animo? Di cuore?…
Basta con quelle ghiandole impazzite!
Non ricordi? È d’altro che si muore…
Adesso vivile le nostre vite!»
Papà, dimmelo ancora, è così vero…
Ridimmelo, ravvivami al mio vero.

Ecco, papà, io non so dare un nome
a questa nebbia che mi fuma intorno
e che mi nasce dentro e non so come
e mi impedisce la luce del giorno,
e senza nome vivo nel tuo nome,
nella tua luce che non fa più giorno
dal millenovecentonovantuno,
dal due dicembre, al sole di Belluno.

Oh! Angeli del tempo, vi scongiuro,
ridategli il suo volto e la sua voce,
ditegli di venire al limbo oscuro
dove fluisco verso la mia foce;
che senta la sua voce, vi scongiuro,
senza più tempo, senza terra e croce,
che non mi senta più così insensata
quando la mente si sarà calmata.

Papà, ho la rettocolite ulcerosa:
intercedi, proteggi, benedici.
Sanguino sempre, sempre più paurosa
del mio sangue, di tutto… Benedici.
E nella mente dove c’è ogni cosa
tornerò a quando eravamo felici,
stringerò la tua mano che conduce
al coraggio, e nel regno della luce.

Sono poveri versi di preghiera,
reliquia miserabile e funesta,
per sposare quell’alba alla mia sera
nella mia testa, in quello che mi resta
della testa, perchè ogni gioia vera
è stata solo dentro la mia testa,
e scrivo sangue invece di parole:
ritorna, alba di viole. Alba di viole!

Se ti avessi ascoltato quella volta,
io cocciuta, cocciuta ed incosciente,
la giovinezza che mi è stata tolta
me la sarei goduta corpo e mente.
Ma la maturità perchè mi è tolta?
Papà, io vivo vergognosamente
vecchia e malata e sempre adolescente
matta di un sogno che non vuol dir niente.

Palpito d’ali al limite del volo,
tu, palpito di piume tutto ali,
per questo giorno, per un giorno solo,
cavami via da questi criminali,
portami un po’ di giorno, un senso solo
in questa notte postuma di mali,
ché neanche la speranza mi è concessa,
ché vivo come ai piedi di me stessa.

Patrizia Valduga

(da Requiem, Einaudi 2002)

I VOSTRI COMMENTI

Tristan 51
Tra i grandi poeti e scrittori che hanno cantato la figura del padre, la sua malattia e la sua morte, assieme a Mark Strand, Camillo Sbarbaro e Federigo Tozzi c’è senz’altro anche Patrizia Valduga. C’è con questo affascinante, spettacolare e per molti aspetti imprevisto “Requiem”. Sicuramente uno dei vertici della sua poesia.

Tristan 51
Da una recente intervista, con grande soddisfazione: “E nella narrativa chi sono i suoi punti di riferimento? / Volponi e Landolfi. Ho amato anche Federigo Tozzi”.

Maria Grazia Ferraris
Requiem. Patrizia Valduga: voce monologante e dolore, corpo e anima totalmente coinvolti, fusi in un’unica voce: il lamento angosciato per la morte del padre, dichiarazione d’amore e d’impotenza: “Oh, prima ch’io ritorni là con te,/fammi avere qualcosa da portare,un piccolo qualcosa dentro me,/e non quest’ansia sola, e questo ansare./ Fa’ che possa portarti dentro me/ qualcosa perchè possa ritornare/ e dirti, padre: «Vedi che ho vissuto:/in me il tuo cuore, no, non si è perduto». Poesia di crudo dolore e nel contempo di terapia del dolore, farmaco, veleno che è medicina, invocazione e richiesta d’aiuto (ché vivo come ai piedi di me stessa), dove l’aulico e il quotidiano, il sublime e il rimembrare dolente, si coniugano e si contaminano. Un affascinante, dolorante e per molti aspetti imprevisto “Requiem”. Sicuramente uno dei più riusciti e coinvolgenti canti sul tema della morte del padre.

Maria Borchert
Patrizia Valduga “Requiem”. In musica il requiem ha una struttura classica. È composto da: Introitus, Dies irae, Sanctus. Alla fine liberami ancora. Tali strutture si riconoscono anche nel requiem di Patrizia Valduga. Poeticamente “composto”. La poetessa, che è così interessante, ha espresso le sue emozioni, paure, speranze e persino desideri nella sua poesia molto peculiare. Con grande tocco e risonanza. Se dovessi tradurre questo requiem poetico in musica, sarebbe un misto di Monteverdi e Arnold Schönberg. Meravigliosa, misteriosa e tuttavia molto chiara Patrizia Valduga.

Antonietta Puri
Senza metafore, senza veli, semplicemente, fuori dalla maschera e lungi da ogni artifizio, il “Requiem” di Patrizia Valduga mette a nudo in senso reale, carnale, altamente poetico, l’agonia e la morte del padre, il dolore, l’angoscia, il male della figlia, in una cronaca, terribile nella sua schiettezza e nella sua bellezza, di rimandi reciproci, di sguardi che si interrogano in muti dialoghi, di dolorose impotenze, struggenti tenerezze e sfiduciati slanci di fede. L’unica metafora su questo libro della Valduga, che stringe la gola e lo stomaco, viene in mente a me in forma nitida e lucida: un unico corpo e un’unica anima scorticati a vivo su cui piove il sale delle lacrime.

Isola Difederigo
Come ha scritto a suo tempo Luigi Baldacci, acuto prefatore di “Medicamenta e altri medicamenta”, nell’opera in versi della Valduga “problema retorico e problema esistenziale si fondono perfettamente: anzi il piano della retorica è la metafora di quello dell’esistenza”, osservando che non c’è tra i moderni “un poeta che abbia allacciato così strettamente la propria urgenza di esistere con l’urgenza di dire e di dirsi”. Ma qui, in questo ininterrotto dialogo con la figura del padre, l’urgenza di esistere e di dire scopre la sua vena più intima e struggente.

Arianna Capirossi
Di rara potenza è la preghiera in memoria del padre scritta da Patrizia Valduga. Strutturata in ottave di endecasillabi, ha un tono solenne pur lasciando trasparire realistici frammenti di vita quotidiana. In un quotidiano doloroso, turbato, buio, caotico, è il ricordo del padre che fa riaffiorare, nei pensieri, l’idea della luce. “E nella mente dove c’è ogni cosa / tornerò a quando eravamo felici, / stringerò la tua mano che conduce / al coraggio, e nel regno della luce”. Tutto il componimento è costruito sull’antitesi oscurità/luminosità; in un drammatico paradosso, la vita si presenta come regno delle tenebre, mentre l’aldilà come “regno della luce”. La figura paterna significa luce, sole, giorno, alba; senza di lui, come dopo il tramonto di una stella, tutto è sopraffatto dall’ombra. La preghiera, inizialmente rivolta a Dio, a partire dalla seconda strofa si rivolge direttamente al padre, in un monologo che tenta disperatamente di farsi dialogo, culminante nei versi dell’ottava finale: “portami un po’ di giorno, un senso solo / in questa notte postuma di mali”.

Ferruccio Palmucci
Lessi, a suo tempo, il poemetto: E’ unico, intensamente intriso di amore e di dolore per la figura paterna, la cui scomparsa ha segnato profondamente l’animo della poetessa, muovendone i sentimenti più dolorosi, inconsci e controversi e traducendoli in versi da poema epico. Straordinaria!

Romana Burroni
Chi se non la Valduga può leggere la Valduga.
Carne ed anima nei gemiti, sospiri, esplosioni, parole ammiccanti e la sua
recita,intrisa di accattivante sensualità, vuole e riesce a sedurre.
Trippe
Budellame
Brame
Caldane
Bulicame
Buriane…è dalla cultura antica e moderna e dal suo dialetto, che la poesia, direi dissacrante, della Valduga attinge.
Si avverte anche sofferenza ” e ho ancora fame”il nodo amoroso non si scioglie, e l’incapacità è tormento.
Brava e colta, donna e poeta da ammirare. La lettura troppo recitata alla fine mi affatica e mi respinge.
La sua opera mi piace.

Aretusa Obliviosa
Mi piacciono i poeti che riescono a portare la loro fragilità tutta contemporanea nella misura o nella forma della tradizione. Penso al grande Caproni, alla sua fresca Annina, contemporanea donna gentile da cantare e da raggiungere con la struggente musicalità di una “ballatetta”; penso anche a quel delicatissimo distillato di dolore – “quella era la sua camera – vedete -” del nostro Giacomo Trinci condensato in quattordici endecasillabi che hanno il sapore di un idillio tutto rivolto alla madre, alla sua memoria. La Valduga raccoglie la sfida e lo stimolo che il poemetto in ottave le offre innalzando – da grande poetessa quale è – una preghiera che arriva fino al padre. E a lui si rivolge con il supplichevole lamento di chi, orfano, sa che solo chi non c’è più potrà sanare le proprie piaghe. Non ci ingannino la stomatite, le ghiandole impazzite, la rettocolite ulcerosa! Quel sangue di vittima sacrificale immolata tra le fredde lenzuola di una camera pagante o anche tra le più familiari di una casa ormai troppo vuota nasconde un male dell’anima prima ancora che del corpo. La cura è poetica illusione: la vita, la bramata giovinezza, i suoi fuggiti vent’anni che suo padre, come lei, conosce.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un padre che continua a vivere nella figlia e nella sua poesia, una figlia che muore con il padre e nel padre: tra sofferenza e ricordo le ottave di Requiem sono la più bella dichiarazione d’amore e la resa incondizionata di un poeta che solo attraverso il canto sopravvive al dolore inelaborabile del lutto. Patrizia Valduga esprime il dolore di ognuno di noi impastando poesia e tradizione con l’ingrediente raro della semplicità e l’esito é semplicemente sorprendente.

Giulia Bagnoli
Requiem non è soltanto la storia, e il ricordo, di chi non c’è più, della straziante morte del padre, ma anche quella della parola che resiste; della scrittura contro l’agonia, che si fa, anno dopo anno, resistenza alla morte. La parola poetica lotta contro il silenzio e tenta di raggiungere ogni volta un mondo “altro”. Questa è infatti un’opera in in fieri, dove ogni anno, dal 1992 al 2001, una nuova ottava si aggiunge alle altre, come un ritorno rituale, un appuntamento, dove la poetessa rende conto al padre della propria vita. La poesia si fa, dunque, resistenza alla morte e diventa l’unica arma di chi resta. La poetessa, invocando il padre, racconta anche la propria inadeguatezza ad essere figlia, come possiamo notare nei versi “Se ti avessi ascoltato quella volta, / io cocciuta, cocciuta ed incosciente”, e ad essere una donna, come quando scrive “Ma la maturità perché mi è tolta? / Papà, io vivo vergognosamente / vecchia e malata e sempre adolescente”. La figlia implora il padre perché l’aiuti a rinascere (Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore, / fammi uscire da me, fammi trovare / favole di pietà, versi d’amore…) e a trovare dei versi d’amore in grado di darle un po’ di pace; a trovare sempre la parola poetica, quella che, talvolta, si “perde e mente”, perché per la poetessa è, ora più che mai, l’unico e ultimo conforto.

Damiano Malabaila
Eccola, Patrizia Valduga: coltissima (quanti di noi sono inciampati su “irredimita”?) ma non libresca; se citazionale, mai sofisticata e comunque originale nelle nuove tramature; e soprattutto, stupefacente auscultatrice del “guazzabuglio” che abbiamo dentro. La sua poesia ci sorprende sempre: sa essere allo stesso tempo eterea e corporale, libera e legata (“religata”), morbida e lancinante, arcaica e futura…

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