VEDI I VIDEO Giorgio Caproni su “Il passaggio di Enea”, con lettura d’autore di “Marzo” , Parola ed espressione , Dai “Versi livornesi” , “Il mare come materiale”
Firenze, 12 marzo 2015 – Marzo costituisce l’esordio ufficiale di Giorgio Caproni poeta (1932, nonostante qualche ritocco). «Giovine sensualità curiosa», come appuntava a suo tempo Aldo Capasso, e del poeta è rimasta solo, in controluce, la giovinezza, un trepido ed instabile trascorrere che si è fatto transizione di un mese dell’anno volubile per eccellenza, beneaugurante e precario, una curiosità investigativa che abbina – parole di Caproni – al «gusto quasi fisico della vita […] un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte».
Sono versi di Come un’allegoria, e Caproni già da allora aveva impostato — con il ricorso alle rime, alle assonanze, alle pause, alla disponibilità dei significanti — un lavoro vivo che trarrà dalla vita pesi di sgomento, per il momento indizi, incrinature di un idillio solo in apparenza inoffensivo. Ma tutto avviene e avverrà per traslazione. Creature irriconoscenti, i versi si dimenticheranno del poeta, si serviranno di lui, delle risorse del suo sentire e del suo studio meticoloso e testardo; gli insegneranno sempre di più che con loro si dice per vie traverse, per percorsi microscopici, per esplosioni au ralenti imprevedibili; vorranno essere invocati, corteggiati amorevolmente, con dedizione, o inseguiti come in una battuta di caccia. È, in definitiva, una pratica della sostituzione, della dislocazione e del trasferimento, quella che è dato riscontrare in Marzo precocemente efficiente.
Un’apertura, quasi una sigla, una garanzia: la giovinezza che si veste di parole, la vita e la morte che si annunciano come la sola vicenda valutabile interessante, ma attraverso lo scintillio del sole, un odore già caproniano, acre, il gesto di una fanciulla: tutto su di uno schermo. Ed è, leopardianamente, con tempi rapidi e indilazionabili, l’inaugurazione di un assurdo, di «finzioni». In Come un’allegoria la giovinezza di Caproni già sostituisce quasi completamente il sé con la poesia, ma non abbatte lo slancio verso l’esterno. Il punto di resistenza è sensibilissimo, e rimarrà tale, attivo, anche quando con la maturità la contraddizione sarà mirabilmente autopoetica, autoinquisitoriale.
Marco Marchi
P.S. Colgo occasione per segnalare due importanti novità bibliografiche concernenti Caproni. La prima è la raccolta di interviste e autocommenti del poeta che coprono l’arco cronologico 1948-1990 dal titolo Il mondo ha bisogno dei poeti, a cura di Melissa Rota, introduzione di Anna Dolfi (Firenze University Press, 2014); l’altra è una silloge di studi firmati ancora da Anna Dolfi, Caproni, la cosa perduta e la malinconia, apparsa nei raffinati “Quaderni della Fondazione Giorgio e Lilli Devoto” (San Marco dei Giustiniani, 2014).
Marzo
Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.
Il fiato del fieno bagnato
è più acre ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.
Giorgio Caproni
(da Come un’allegoria, 1936)
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