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Firenze, 8 novembre 2016

Inno a Venere

Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi,
alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo
popoli il mare solcato da navi e la terra feconda
di frutti, poichè per tuo mezzo ogni specie vivente si forma,
e una volta sbocciata può vedere la luce del sole:
te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire
le nubi del cielo, per te la terra industriosa
suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare,
e il cielo placato risplende di luce diffusa.
Non appena si svela il volto primaverile dei giorni,
e libero prende vigore il soffio del fecondo Zefiro,
per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea,
e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale.
Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio,
e guadano i rapidi fiumi: così, prigioniero al tuo incanto,
ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo.
E infine per mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi,
nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure,
a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore,
fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le stirpi.
Poichè tu solamente governi la natura delle cose,
e nulla senza di te può sorgere alle divine ragioni della luce,
nulla senza te prodursi di lieto e di amabile,
desidero di averti compagna nello scrivere i versi
che intendo comporre sulla natura di tutte le cose,
per la prole di Memmio diletta, che sempre tu, o dea,
volesti eccellesse di tutti i pregi adornata.
Tanto più concedi, o dea, eterna grazia ai miei detti.
E fa’ che intanto le feroci opere della guerra
per tutti i mari e le terre riposino sopite.
Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace,
poichè le crudeli azioni guerresche governa Marte
possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo,
vinto dall’eterna ferita d’amore,
e così mirandoti con il tornito collo reclino,
in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi,
e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino.
Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo,
riversandoti su di lui effondi dalle labbra soavi parole,
e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani.
Poichè io non posso compiere la mia opera in un’epoca
avversa alla patria, nè l’illustre stirpe di Memmio
può mancare in tale discrimine alla salvezza comune.

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur vitisque, exortum, lumina solis,
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli,
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi redent aequora ponti
placantumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura Favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum, perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide, quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium composque virentis,
omnibus incutiens blandum per pectora amorem,
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas,
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur, neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendi versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
Effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant.
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit, aeterno devictus vulnere amoris,
atque – ita suspiciens tereti cervice reposta –
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa saper, suavis ex ore loquellas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur, neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendi versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
Effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant.
Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit, aeterno devictus vulnere amoris,
atque – ita suspiciens tereti cervice reposta –
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa saper, suavis ex ore loquellas
funde, petens placidam Romanis, incluta pacem!
Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possum aequo animo, nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

Tito Lucrezio Caro

(da De rerum natura)

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