VEDI I VIDEO Carmelo Bene legge Dante (da “Inferno”, canto XXVI) ,  “L’Inferno” di Giuseppe de Liguoro (1911). Film completo! , “Nostos” di Vinicio Capossela (2011)

Firenze, 2 aprile 2014 – Un esempio emblematico e davvero indimenticabile dell’arte interpretativa sopraffina di Carmelo Bene si ha alla fine della Lectura Dantis di oggi.

Un unico ma incontrovertibile esempio della genalità dell’attore. Si ascolti solamente come Carmelo Bene recita i versi che suggellano il racconto che del «folle volo» fa Ulisse, e cioè i versi 141-142 del canto XXVI dell’Inferno che dicono «e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

// infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»; si ascolti e ci si stupisca, ammesso che lo stupore non si sia già da molto tempo impadronito di voi, di fronte alla assoluta straordinarietà di una intepretazione che qui, a conclusione dl brano, magnificamente rende visibili il terribile sprofondamento della nave di Ulisse e il successivo ricomporsi della superficie delle acque. Grande Bene! Lo sentiremo a breve nell’interpretazione dantesca a lui massimamente congeniale dei versi del Conte Ugolino, canto XXXIII dell’Inferno, e anche allora sarà sufficiente ascoltare lo schioccato, efficacissimo «La bocca…» con cui l’attore dà il via alla sua lettura per capire subito a che mirabile prova di recitazione siamo introdotti.

Ma torniamo al post odierno. Seguono nei video allegati come intriganti curiosità (volevamo scrivere ghiotte curiosità, ma il riferimento al Conte Ugolino ce lo ha sconsigliato) il film muto del 1911 di Giuseppe de Liguoro L’Inferno offerto nella sua interezza (con una colonna sonora di musica moderna molto azzeccata ed efficace dei Tangerine Dream) e un mix citazionale di genere colto (soprattutto ma non soltanto Dante e Itaca di Kavafis) per la voce e la musica di Vinicio Capossela: canzone datata 2011, esattamente cento anni dopo il film di de Liguoro.

Marco Marchi

Da «Inferno», canto XXVI

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:



«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco



quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».



Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;



indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse:

«Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,



né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,



vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;



ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.



L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.



Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,



acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.



“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.



Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.



Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;



e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.



Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.



Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,



quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.



Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.



Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,



infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».


Dante Alighieri 

Dalla Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, Bologna, 31 luglio 1981, nell’anniversario della strage della stazione.

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