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Firenze, 7 ottobre 2014 – A rappresentare Antonella Anedda – poetessa di origini sardo-corse che vive tra Roma e la Sardegna – tre testi: uno tratto dal suo primo libro, Residenze invernali, edito da Crocetti nel 1992, gli altri due dalla bella e pluripremiata raccolta del 2012, suggestivamente intitolata con riferimento al linguaggio tecnico della computeristica, Salva con nome.
Due decenni di poesia concentrati in tre testi che siglano a loro modo, nell’estrema sintesi che ne sigla l’accostamento, un diagramma evolutivo poi aggiornato fino al recente volume garzantiano di Tutte le poesie (2023), molto coerente e preciso, pur nella disponibilità della Anedda a sperimentare, a seguire cioè tutta la vasta gamma di possibilità espressive che il fare poesia a lei offre e in qualche modo, di necessità, perentoriamente le richiede, le impone.
Il percorso sottinteso ma pienamente rilevabile ed efficiente in senso interpretativo è quello che conduce dal «sentimento storico del tragico» certificato dalla felice raccolta d’esordio (la definizione è desunta da uno scritto critico di Carmelo Princiotta) all’odierna apertura verso le cose e il mondo che io poetante dell’autrice, ora come non mai, umanamente obbedendo anche al tempo che passa e all’accumulo di esperienze che la vita in ciascuno di noi deposita, asseconda e ricerca. Tutto questo, si badi bene, secondo una disponibilità già efficiente come attenzione e tensione nel primo libro, ma ormai fattasi istanza inderogabile, centrale e protagonistica in Salva con nome.
A Giuliano Ladolfi, d’altronde, il decisivo Salva con nome si presenta infatti come un libro in cui «la precedente sfida in versi di Antonella Anedda si trasforma in ‘testimonianza’ che supera l’ambito letterario per collocarsi in un mesaggio di impegno». E ancora: «L’Anedda avverte in sé l’esigenza di uscire dal solipsismo novecentesco per trovare nella solidarietà sociale quella forza e vigore che possono recare significato all’esistenza. L’entusasmo per la bellezza dell’esistenza non può essere contenuto e si trasforma in ‘contagio’ che le parole instillano nel lettore e testimoniano come, nonostante tutto, nell’uomo sia pulsante e cogente la necessità di conoscenza, di luce e di chiarezza, in caso contrario vengono minati i fondamenti stessi della convivenza, della cultura, dell’esistenza».
E chi sono poi, ci chiediamo noi, i poeti, quegli uomini e quelle donne che chiamiamo poeti? Creature davvero strane, creature in bilico tra fantasia e realtà, artificio e naturalezza, obbedienza a richiami cogenti e desiderio di libertà, infrazione delle regole imposte e tensione ad armoniche dimensioni dell’esistere; creature solitarie e con gli altri, tremendamente attaccate all’ombelico della loro anima e insieme, proprio mentre scrivono, smaniose di aperture e differimenti, con lo sguardo concentrato su una carta e nel contempo, sentendosi universalmente incaricati e al tempo stesso universalmente rappresentativi, protesi sull’infinito.
Marco Marchi
E’ scesa una notte orientale
E’ scesa una notte orientale, si è incollata sui tetti.
Di colpo come nei presepi
da una fessura del cielo è precipitata la neve.
Davanti alla sponda del letto sfilavano silenziose le renne
contro il legno degli armadi ardevano i fuochi dei lapponi
fuori crepitavano rami e bottiglie
bruciavano alberi di natale:
legno e vetro, segreto scintillio di carte.
E’ arrivato il Capodanno.
Noi abbiamo vegliato senza fatica, semplicemente
La luna spezzava le travi, l’ombra di una calza velava il cortile,
ogni lume era spento.
Gennaio lascia nelle isole
gusci di riccio sugli scogli
e tesa luce sulle secche invernali.
Come una desolata corona di pietra
in un naufragio polare
lastre di granito e chiuse lapidi
nell’acqua e in terra
oltre il promontorio della Trinita
dentro il recinto del cimitero.
Vi chiedo coraggio: sognate con la dignità degli esuli
e non con il rancore dei malati
cancellando la visione dei muri e della neve
trasformando l’ombra sporca dei fiocchi e la sagoma scura dei gabbiani
con l’animo teso dei marinai
che ammutoliscono al sollevarsi dell’onda
e pregano
raccolti nel cesto del vento.
Un filo d’acqua scende nel lavabo
Il ghiaccio riga le finestre
ed è difficile pensare al soffio marino
e l’urtare dei carrelli
e il fischio di sirena mattutino
non contemplano nessun eroismo.
Eppure, distesi sulla misteriosa rotta dei letti
noi siamo nello stesso splendore
della marea che si placa
vicinissimi al nodo che l’acqua finalmente distende.
La nave salpa e cammina
ed è un quieto santuario.
Sente a distanza come tace, vede
Sente a distanza come tace, vede
lo sfolgorio del suo giardino rigato nella pioggia
il tavolo dove piombano gli uccelli, da questa sedia cuce
una federa che un lembo tocchi l’altro e due orecchie di lino
unite a perfezione. Guarda come sconfina l’amore mentre scrive
come il difetto la sconforti aggrovigliando i fili nel cestino
perché peccato la penna non è un ago
che naviga nel sangue fino al cuore.
Se devo scrivere poesie ora che invecchio
Se devo scrivere poesie ora che invecchio
voglio vederle scorrere, perdersi in altri corpi
prendere vita e nel frattempo splendere sulle cose vicine,
tenermi compagnia come le cipolle sbucciate nella luce
mentre preparo un brodo con gli occhiali offuscati
appunto un verso su un foglio e a volte mi ferisco
scambiando la penna col coltello.
Antonella Anedda
(da Residenze invernali, Crocetti 1992 le prime due, da Salva con nome, Mondadori 2012 la terza)
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