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Firenze, 22 luglio 2019 – I ritratti che Mario  Francesconi ha dedicato a Mario Luzi sono pressoché infiniti: una vera e propria «esondazione» di ritratti, come Luzi disse una volta dell’intera, vastissima produzione dell’amico pittore. Ritratti come inesauribile variazione di un soggetto costante sul modello rivisitato degli antichi e come anche accade nei moderni: si pensi a Morandi, o per altro verso a Mondrian, uno dei numi tutelari dell’arte di Francesconi.

Luzi, insomma, sempre Luzi, fortissimamente Luzi, secondo un’intima, approssimante e quasi gemellarmente ritrovata iconografia dell’anima bisognosa di venire alla superficie: una instancabile ed insaziata ricorrenza fra tempo ed attimo eterno, nel segno di quella fedeltà a temi privilegiati e motivi ritornanti riscontrabile anche nel poeta Mario Luzi. Che galleria di fiumi, ad esempio, nei suoi versi «naturali», da La barca alla Dottrina dell’estremo principiante! E che esempio sublime, in chiave di autobiografismo trasposto e nuovamente di allusioni allegoriche fluviali, quello fornito dal pittore-alter ego del Viaggio terrestre e celeste, Simone Martini!

Dicono magnificamente i versi di Luzi: «Arte, cosa m’illumina il tuo sguardo? / la vita o la memoria / della vita? i suoi lampi, / la sua continuità? / del sempiterno fiume l’alveo o il flusso?» (Arte, cosa m’illumina il tuo sguardo?). Un’interrogazione che si placa più nell’umiltà dell’operare, nell’adempimento indefesso, paziente e scrupoloso di un compito, che non nella penetrazione del «mistero», nella sua chiara e definitiva decifrazione che quegli aneliti decodificanti annullerebbe, ridurrebbe a «stasi». E tuttavia, ancora secondo gli splendidi versi di Luzi, e nei termini di una ferma e struggente preghiera di chi all’arte con confidenza propriamente religiosa (con fede) tende e si affida: «Rimani dove sei, ti prego, / così come ti vedo. / Non ritirarti da quella tua immagine, / non involarti ai fermi / lineamenti che ti ho dato / io, solo per obbedienza. / Non lasciare deserti i miei giardini / d’azzurro, di turchese, / d’oro, di variopinte lacche / dove ti sei insediata / e offerta alla pittura / e all’adorazione, / non farne una derelitta plaga, / primavera da cui manchi, / mancando così l’anima, / il fuoco, lo spirito del mondo. / Non fare che la mia opera / ricada su se medesima, / diventi vaniloquio, colpa» (è la nostra «poesia del giorno», Rimani dove sei, ti prego).

Ossessioni di artisti, loro timori e loro porsi in stato di obbedienza rispetto ad urgenze e impulsi profondi, parte anch’essi – fra parole e colori – del «mistero» di continuo costeggiato. Sta di fatto che dal 2004 in poi, a partire dal festeggiatissimo ed artisticamente produttivo traguardo per Luzi dei novant’anni, Francesconi ha subito un richiamo ineludibile che lo ha spinto a fare con Luzi ciò che il pittore versiliese non aveva mai fatto con nessuno dei suoi molti amici letterati conosciuti nel corso di un’esistenza: da Sciascia a Gatto, da Tobino e Bilenchi a Cancogni e Garboli. Con Luzi e solo con Luzi è scattato qualcosa di davvero speciale, da agnizione di sé delegata, quasi sub specie altrui: una fascinazione creativa, un’attrazione investigativa e identificante, e nel contempo un’istanza dialogica profonda, comunicativa e di confronto (perfino di rispecchiamento il più possibile ampio, com’è delle cose e delle persone che amiamo, fino al «doppio»), permessa e garantita dalla necessità stessa dell’atto artistico.

Ritratti a memoria, e proprio così, in assenza del modello da copiare o di sue naturalistiche immagini fotografiche sostitutive, liberamente realistici, anzi più veri del vero: una rutilante, inarrestabile miriade di ritratti capillarmente duttili e attenti, dialogici, affettuosi ed esigenti nel carpire verità fattesi insieme tratto fisionomico e segno espressivo dell’arte; mobili e già spolpati ritratti, resistente e nel contempo trascesa pertinenza del «visibile» biografico; figure per via di segni e impronte di una specie umana tra sé dialogante, con uomini in ascolto l’uno dell’altro, non dimentichi delle proprie origini, pronti ai sacrifici dell’assenza e del silenzio, come chi indirizza lettere rivolgendosi a fantasmi nel chiuso della propria stanza, per comprendersi più a fondo. Si profilano così nuove «riduzioni in parvenze, in illusioni, in astrazioni» – come a suo tempo notò Leonardo Sciascia, scrivendo con acutezza sulla pittura di Francesconi – che sono affilati strumenti, frutto non di ingenuità ma di «consapevolissimo candore» in grado di affrontare e dare lineamenti attendibili al reale tutto.

Gli occhi stessi di Luzi certificavano da soli, d’altra parte – mi è capitato di notarlo e perfino di scriverlo –, del suo essere poeta: gli occhi di Luzi, o meglio i suoi sguardi ingigantiti e resi più intimi dal ricordo, sono stati i primi ad imporsi, probabilmente assieme al silenzio quanto mai gravido di pensieri e sentimenti della persona di Mario Luzi, nell’avantesto figurativo ancillarmente fedele ed instancabilmente mutante di Francesconi. Poi, ogni volta da capo, come se la prima volta fosse quella e non le precedenti, è stata la pittura e solo la pittura a guidare la mano di Francesconi (anche Rilke testimoniava nella sua pratica della poesia la stessa cosa), mettendo in atto le proprie aprogettuali ed esattissime strategie della conoscenza, i suoi modi naturali fra mente e cuore di rompere solitudini, di promuovere comunicazioni, forme di solidarietà e reciproca accoglienza.

È soprattutto a questo denso e decisivo discrimine che Luzi (l’ultimo Luzi, il Luzi più marcatamente «civile») è venuto imponendosi nell’ispirazione di Mario Francesconi come elemento portante di quella «grammatica» compositiva individuata tra «grazia e autorità», «letizia del visibile» e «concretezza formale fin nel segno astrattivo», di cui il poeta stesso aveva già parlato nel 1970 nell’occuparsi dell’opera di Francesconi in mostra a Firenze, da Pananti. E ancora Luzi, nel riconfermare quindici anni dopo la sua adesione e la sua chiave di lettura, scriveva: «Forse non tutte le tele ridono, ma un sorriso, un rapimento è già in questo lavoro che pare ininterrotto e perfino disinteressato riguardo alle conclusioni. Francesconi è uno dei rari artisti per cui cercare è letizia (ma non godimento) e sorpresa incessante, e in questo senso cercare è per lui già trovare».

Due maniere, in particolare, nell’odierno, irresistibile ed inesausto ritrarre a soggetto unico di Francesconi sembrano poi lasciarsi cogliere, in ossequio ad una sorta di condivisa, fraterna iconografia del profondo sperimentalmente cangiante e dinamicamente attiva, di continuo reintrodotta grazie all’ossessione innescata dal modello al «fuoco» di quella «creazione incessante» da Luzi perseguita, inscenata e corroborata. Da una parte semplici ed essenziali tratti grafici, geometrie composte, stilizzate e stilate con leggerezza, perfino tremuli riflessi strappati al pozzo della memoria ed ossidati allungamenti da Ombra della sera; dall’altra, e in contemporanea, lussureggianti trionfi di colori e impasti, con stratigrafie e ripassi – gioiosi fino all’esultanza o dolentemente drammatici – di materia, non senza contaminazioni, sensibili innesti e zone di passaggio tra le due fondamentali modalità espressive: laddove ad esempio il segno si arriccia e rompe l’ordine, deviando comunque dalla elegante linearità e dalle bilanciate simmetrie per farsi macchia e chiaroscuro, per ispessirsi e distendersi in effetti, campiture, amalgami coprenti e spessori. Francesconi tra l’astrattezza di Klee e di Mondrian e il gesto di Pollock, insomma, volendo citare autori cari al pittore, che sono punti di riferimento ineludibili del moderno utili a capire la sua originalità di artista, la felicità espressiva storiograficamente legittimata di una lunga e articolata vicenda.

Francesconi, con la sua pittura, anche tra la vita e la morte. Non sarà un caso che fra tutti i ritratti realizzati da Francesconi – quelli inevitabilmente selezionati per questa mostra e i moltissimi per forza di cose ingiustamente esclusi – si segnali il ritratto di Luzi realizzato il giorno della scomparsa dell’amico poeta (lo si può ammirare riprodotto nell’autoantologia luziana Autoritratto, a cura di Paolo A. Mettel e Stefano Verdino): un Luzi smaterializzato, puro spirito, affettuosamente seguito in quel nuovo e più che mai misterioso viaggio intrapreso; un Luzi ormai spolpata icona dell’invisibile, piena figura del «celeste». Sì, si torna a pensare a Simone Martini e al suo esempio, al tempo e alla cattura dell’attimo eterno che è l’assillo e la sfida dell’arte, all’«universa compresenza» che è «totale evidenza», alla miracolosa e sempre bramata «suprema concordanza».

Ecco così una inverosimile serie di tecniche quanto mai miste e di supporti quanto mai eterogenei e casuali (anche in questa preliminare scelta, sceglie in realtà per Francesconi la sua pittura): dal coperchio pressato di una scatola da scarpe con il suo residuo, «naturale» passe-partout di cartone colorato ad una carta da bollo, alle novecentescamente collaudate pagine di giornale, gloria delle avanguardie e del collage, da Picasso a Rauschenberg. Ecco così, su quei supporti poveri e sublimi, da riciclo dell’esistente, una traboccante miriade di ritratti, una inconclusa e potenzialmente infinita fantasmagoria di omaggi a Mario Luzi: lavori in corso pulsanti, da moto perpetuo del cuore e della mente, così grati e confidenti da pervenire, tramite i disvelamenti operati dalle finzioni dell’arte in un colloquio da Mario a Mario, all’impudicizia della maschera. Per suo conto, già lo accennavamo, Luzi è stato lettore affezionato, singolarmente sintonico e attendibile di Mario Francesconi, in grado di cogliere nelle diacronicamente diluite attestazioni del suo giudizio continuità e aggiornamenti di una ricerca svoltasi nei terrestri territori del «visibile»: una «letizia», quella di Francesconi, fattasi con il procedere degli anni e del suo lavoro d’artista, sempre più minacciata e perciò responsabile, e un persistente, rinascente «mistero» diventato esso stesso più complesso e sbaragliante, più esigente e irresistibile.

Si capiscono bene in questa luce, io credo, le dialogicità stringenti e umanamente preoccupate di un incontro finale instauratosi fra due artisti e la ravvisata, intima e comune necessità del loro compito da svolgere nel mondo: «una sublimata tenacia – per dirla con parole di Luzi su Francesconi datate 2003, alla vigilia dunque dell’inaugurato ciclo ritrattistico – nel trattenere il visibile, l’umano; e nel celebrarlo umilmente nei suoi poveri fastigi, nella sua intensa significazione». Luzi coglieva in particolare nel corrugamento dell’immagine e nel prevalere di scenari ambientativi spoliati e desertici i segnali di una progressiva, montante novità della pittura di Francesconi rispetto alla più lineare, diretta e inintaccata festosità degli inizi. O forse, come ancora Luzi suggeriva, Mario Francesconi non ha cercato altro che di accostarsi maggiormente e con più deliberato coraggio al «mistero», di tentare di penetrarlo.

Così, assieme all’umiltà pronta a cantare la semplice ricchezza dell’esistente e a riscattarla, il «dramma» e l’«enigma» si impongono per Mario Francesconi come per Mario Luzi quali privilegiati dati di riconoscimento di una propria immagine umana calata nel reale e, insieme, quali contrassegni di cogenti quanto «naturali» affinità individue: linee propulsive, pensando in particolare agli innumerevoli e tutti strepitosi ritratti firmati da Francesconi, di una condivisione costantemente in atto vigile ed efficiente, davvero senza fine, oltre i confini di ciò che correntemente chiamiamo la vita. «Il fuoco, lo spirito del mondo», la «creazione incessante» di Luzi e l’infinito ritrarre di Francesconi…

Marco Marchi

Rimani dove sei, ti prego

Rimani dove sei, ti prego,
così come ti vedo.
Non ritirarti da quella tua immagine,
non involarti ai fermi
lineamenti che ti ho dato
io, solo per obbedienza.
Non lasciare deserti i miei giardini
d’azzurro, di turchese,
d’oro, di variopinte lacche
dove ti sei insediata
e offerta alla pittura
e all’adorazione,
non farne una derelitta plaga,
primavera da cui manchi,
mancando così l’anima,
il fuoco, lo spirito del mondo.
Non fare che la mia opera
ricada su se medesima,
diventi vaniloquio, colpa.

Mario Luzi

(da Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini)

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