VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , Da “Bestie” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana

Firenze, 12 giugno 2019 – Segnalando che domani pomeriggio, dalle ore 17,30, sarà presentato al Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze in Palazzo Strozzi il primo volume dell’Edizione Nazionale dell’opera omnia di Federigo Tozzi: Giovani, edizione critica a cura di Paola Salatto, prefazione di Romano Luperini. Partecipano Riccardo Castellana, Paola Italia, Marco Marchi e Giuseppe Nicoletti, cordina Gloria Manghetti. Nel corso dellincontro Franco Tomasi presenterà la collana Bit&s delle Edizioni di Storia e Letteratura che ospita il libro. Sarà presente la curatrice.

In questo volume che apre la serie delle opere dell’Edizione Nazionale, testualmente assistiti dai dettagliati e ricchissimi apparati della curatrice Paola Salatto e criticamente introdotti dalla bella prefazione di Romano Luperini, ritroviamo la grande scrittura di Tozzi. La ritroviamo ad apertura di pagina in Pigionali, un testo rilevante che, significativamente abbinato a una novella delle origini come Il ciuchino, fu a suo tempo giudicato dalla coppia Fruttero-Lucentini come una prova narrativa che «se fosse firmata da Conrad, Cecov, Joyce, sarebbe considerata un capolavoro assoluto». La ritroviamo, come ha scritto Pier Vincenzo Megaldo, in «certi racconti» valutabili «superiori a quelli di Kafka».

E, assieme alla formidabile scrittura di Tozzi, ritroviamo in Giovani la crudele poetica di Tozzi, a cominciare dal motivo tematico fondante, scatenante e di continuo ritornante del rapporto parentale, in special modo, come tutti sanno, paterno, ravvisabile emblematicamente in controluce persino nel titolo antifrastico e amaramente double face della raccolta: personaggi protagonisti preferenzialmente giovani, cioè, ma leopardianamente giovani e dunque sostanzialmente impartecipi di quei doni fallaci che almeno la gioventù dovrebbe garantire con pienezza a quella che Montale di lì a poco, negli Ossi di seppia pubblicati quattro anni dopo Giovani, avrebbe chiamato l’«età illusa».

Alla primigenia impossibilità di amare che sigla il rapporto padre-figlio rinviano emblematicamente altre novelle, con il ricorso anche, come nel romanzo e come nel teatro, da Adele a L’eredità, all’en travesti, a letterarizzazioni cioè in chiave femminile. Così Tozzi, in due novelle tarde presenti in Giovani, continua ad essere contemporaneamente il diciassettenne Alfonso Donati di Un giovane e l’indimenticabile (l’altrettanto indimenticabile) Fiammetta Pezzoli di Una figliola.

Che novelle sa scrivere Tozzi! Alfonso è un adolescente che della giovinezza avverte, per via di malinconia, quei tipici momenti di imprevista e inspiegabile tristezza, di contatto con l’idea della morte. Ma anche il passato contrasta un’età, con i suoi calamitanti, nostalgici ritorni a ciò che è stato: «Qualche volta si sentiva ancora un ragazzo, e allora camminava più lesto per lasciare questo ragazzo, che era stato una parte di lui stesso, dietro di sé. Lo voleva mandare via a tutti costi; e credeva che quella passeggiata gli facesse trovare definitivamente il senso della sua adolescenza; di cui non era abbastanza sicuro». Le carezze di Alfonso all’erba di un prato sono qui indice (al pari dello slancio immedesimativo verso uno «stocco di granoturco» di una celebre lettera di Novale, 15 settembre 1907) di quella seducente e deresponsabilizzante sirena regressiva che riporta ai territori dell’infanzia: «Quasi l’avrebbe baciata; perché era silenziosa e, come lui, non poteva parlare».

Ma la figura di Filiberto, il padre marmista cui Alfonso allora non sta pensando, incombe minacciosa. È lui che detiene la parola, il comando, la possibilità – come Dio al momento della creazione – di far corrispondere ordine e ordinamento. E la sua spietata violenza è, insieme, per Alfonso, detestabile e affascinante, insopportabile e deliziosa: la bocca è impossibilitata a parlare, gli occhi – come al solito – si chiudono: «Ma s’era a pena voltato, che il vecchio, afferratolo per il collo e per un braccio, lo riportò in dietro. Lo voleva vedere, diceva, dentro gli occhi! Ma Alfonso teneva la testa bassa. […] Non si reggeva più ritto, e avrebbe avuto bisogno di piangere e di abbracciare suo padre con un affetto che in quei momento doventava immenso: anzi, solo in quei momenti, provava un vero affetto per il padre».

La stessa cangiante ambiguità di sentimenti (leggi: la stessa sostanziale inclusione della figura del padre in una generale, sconsolata vicenda di estraneità e di solitudini) è riscontrabile nel personaggio di Fiammetta Pezzoli, coprotagonista assieme al vecchio padre Battista della novella Una figliola. Per due volte il padre ha vietato a Fiammetta di amare, costringendo la sua giovinezza di ragazza a sfiorire nel senza-tempo di una casa, tra gli specchi di un’immagine annoiata di se stessa e mortificanti incursioni all’esterno, tra la villania dei contadini.

Dopo un veterinario incapace e un tenente «troppo giovane», è la volta di un impiegato del dazio, Ottorino; per il padre uno stupido già per il fatto che si dimostri interessato a sua figlia. Ed ecco la fondamentale, divaricata risposta del personaggio alle brutali imposizioni subite: «Ella aveva voglia di piangere, e rideva. / Rideva perché voleva obbedirgli. Il padre allora credette che tutto finisse. Ma la ragazza, con quei suoi capelli biondi su la nuca larga e quadrata, che paiono la fiamma d’una carta che brucia, e la fiamma si vede poco perché c’è la luce del sole, scosse la testa e se n’andò a mettere la fronte ai vetri della finestra».

Fiammetta appoggia la fronte ai confini della sua scontentezza; fuori la cattiveria del mondo, complicata dalla vendetta di Ottorino, farà il resto, non risparmiando neppure la figura del padre. Allorché la ragazza deciderà, dopo essersi ingrassata, di ammalarsi, nella casa del padre si consumeranno due parificabili destini di solitudine. La brutalità di Battista Pezzoli, perfino nell’epilogo della vicenda, rimarrà probabilmente la stessa: quella di Vincenzo Freschi, di Domenico Rosi, di Filiberto Donati e di tanti altri padri tozziani, aliena di per sé, per definizione, dalle sfumature. Ma la coloritura remissiva del personaggio femminile, che sullo schermo della vita lo scrittore poteva puntualmente attingere al ricordo della madre, la mite figlia di nessuno (e madre quasi di nessuno) che Ghigo del Sasso aveva voluto con sé, è un indice sensibilissimo di quella pietas che coinvolge in Tozzi tutto l’esistente.

Marco Marchi

Cinque poesie di Tozzi

Antiche torri della mia città,
spesso pensai con molta voluttà
che io uccidessi allo sbocco d’una strada
tutti, volgendo a tondo la mia spada;
antiche torri della mia città.

***

Io trucidai l’amore a primavera,
ed ogni cosa crebbe di sue vene.
Ma un cavaliere con la lancia nera
ad aspettarlo nella notte viene.
Io trucidai l’amore a primavera.

***

Signore, adesso ho l’anima tranquilla
sì come una città nel sole afoso;
soltanto un’alta cuspide scintilla
nell’infinito puro e silenzioso.

Io non trovai giammai fin qui riposo;
e m’arse sempre in vece una favilla
nel mio cammino tacito e pietroso,
dove udivo soltanto la mia squilla.

Ed ora m’ebbi il tuo sorriso immenso
come se fosse a guisa d’orizzonte:
onde la terra è simile all’incenso.

E se io non vedo ancora la tua fonte
pullulata da dentro ad ogni senso,
l’anima pel tuo cielo è come un ponte.

Cristo

Con una veste rossa per dileggio
ti portano nel mezzo di una piazza.
E piove. Un uomo del bestial corteggio
batte su la tua carne pavonazza.

Ma, come se volesse farti peggio,
la turba ridacchiando si sollazza
se alcuno dice: O Cristo, ti schiaffeggio!
E il tuo sangue lo bagna come guazza.

Anche tieni una canna con le mani,
non pensando ai fuggiti tuoi seguaci
e alla pioggia che t’entra nei capelli.

Oh, come ti si schiudono i lontani
cieli della bontà, mentre tu taci;
e quanto ti confortano più belli!

Crocefissione

Silenzio immenso. Si ode gocciolare
il sangue dalle gambe di Gesù.
I due ladroni vogliono ascoltare;
ma le teste si piegano di più.

Ed ecco dalla strada lunga appare
Maria e le donne della sua tribù.
Elle si vedon molto lacrimare,
e Cristo si distorce e guarda giù.

I lor grandi mantelli son vermigli;
e una luce potente e misteriosa
batte su i loro volti come gigli.

Forse, è la luna bianca e dolorosa?
Ma par che a un tratto il sangue si rappigli
su la croce; e Gesù morto riposa.

Federigo Tozzi

(da La zampogna verde, 1911, ora Empirìa 2005)

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