VEDI I VIDEO Versi dal libro IV dell'”Eneide” letti da Lucia Poli (vv. 8-104) , Didone secondo Henry Purcell , … secondo Giuseppe Ungaretti e Andrea Chimenti… e secondo Franco Rossi e Giuseppe Tartini

Firenze, 24 luglio 2022

Da Eneide, Libro IV

Il giorno seguente l’Aurora illuminava la terra
con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo
già tutta l’umida ombra, quando Didone
fuori di sé si rivolge alla fedele sorella:
“Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano
e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo
come l’ospite nostro! Così nobile d’aspetto,
d’animo valoroso e forte nelle armi!
Credo proprio (ed è vero!) che sia di stirpe divina,
poiché la viltà rivela le anime degeneri.
Ahi, da quale destino è stato travagliato,
come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!
Se non avessi deciso irrevocabilmente
di non voler più sposarmi con nessuno
dopo che il primo amore se l’è preso la morte
e mi ha lasciata così, delusa, piena d’odio
per le faci nuziali ed il talamo, forse
avrei potuto cedere unicamente a lui.
Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero
mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno
che ha macchiato di sangue la casa familiare,
questi è il solo che m’abbia colpito i sensi, il solo
che m’abbia folgorato l’anima, così da farla
vacillare: conosco i segni dell’antica fiamma!
Ma la terra profonda s’apra sotto i miei piedi
o il Padre onnipotente mi fulmini nell’ombra,
tra le pallide Ombre dell’Inferno e la notte,
prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare
le tue leggi. Colui che per primo mi unì
al suo destino d’uomo s’è preso tutto il mio amore,
ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro.”
Scoppiò in pianto e le lagrime le corsero giù per il petto.
Anna risponde: “Sorella più cara della luce,
trascorrerai la giovinezza sempre sola e dolente
senza la dolcezza dei figli né le gioie di Venere?
Credi che questo importi alla cenere e all’Ombra
di chi è morto e sepolto? Stammi a sentire. Capisco
che non t’abbia piegato il cuore doloroso
nessun pretendente di Libia e neppure di Tiro;
capisco che tu abbia spregiato Jarba e i re
di questo paese africano ricco di tanti trionfi;
ma perché vuoi respingere anche un amore vero?
Non ti ricordi in che terra ti trovi, in mezzo a che genti?
Di qua ti circondano i popoli di Getulia,
razza imbattibile in guerra, i Numidi senza freno
e l’inospite Sirte; di là una regione deserta,
arsa di sete, e i Barcei che dilagano in furia.
E cosa devo dire delle prossime guerre
con Tiro e delle minacce di nostro fratello?
Credo davvero che le lunghe navi di Troia
siano corse fin qui sotto i soffi del vento
con gli auspici divini e il favor di Giunone.
Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni,
da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri
a fianco, in quante imprese si leverà la gloria
dei Punici! Tu implora la grazia degli Dei,
questo soltanto, e una volta compiuti i riti abbi cura
dell’ospite, trova pretesti perché si trattenga a lungo,
finché sul mare infuria l’inverno e il piovoso Orione,
finché le navi son guaste e intrattabile il cielo.”
Con queste parole le accese l’anima d’amore bruciante,
diede speranza al cuore dubbioso e vinse il pudore.
Subito vanno ai templi e chiedono la grazia
davanti a tutti gli altari; immolano, come è d’uso,
pecore scelte a Cerere legislatrice, a Febo,
al padre Lieo e soprattutto a Giunone, patrona
dei nodi coniugali. La bella Didone
versa lei stessa la tazza, tenendola con la destra,
tra le corna lunate di una bianca giovenca;
e davanti alle immagini divine a passi solenni
cammina verso gli altari coperti di offerte.
Comincia la sua giornata con sacrifici e preghiere
e, in cerca d’un buon augurio, chinandosi sul fianco squarciato
delle bestie ne consulta le viscere
palpitanti, profetiche. O menti ignare dei vati!
A che servono preci e templi a una donna in delirio?
La fiamma le divora le tenere midolla
e sotto il petto vive una muta ferita.
L’infelice Didone arde ed erra furiosa
per tutta la città, come una cerva incauta
che – dopo averla inseguita con le frecce – un pastore
tra le selve di Creta di lontano ha ferito
con un’acuta saetta, lasciando senza saperlo
confitto nel suo fianco il ferro alato: lei
corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze
dittèe, recando inflitta nel fianco la canna mortale.
Ora conduce con sé Enea in mezzo alle mura
facendogli ammirare le ricchezze sidonie
e la città già pronta: ora comincia a parlare
e le manca la voce, si ferma a mezzo il discorso.
Caduto il giorno chiede sempre lo stesso banchetto,
follemente domanda sempre di udire lo stesso
racconto, e pende sempre dalle labbra di lui.
Poi quando si son separati e persino la luna
s’oscura, attenua il suo lume, e le stelle tramontano
ed invitano al sonno, nelle sue vuote stanze
si strugge, sola, e si getta sul giaciglio che Enea
occupava durante la cena e ha lasciato: è lontana
da lui, eppure negli occhi ne ha sempre l’immagine,
la voce di lui lontano ha sempre nelle orecchie.
Ed a volte, incantata dalla sua somiglianza
col padre, tiene in grembo Ascanio e cerca di illudere
l’indicibile amore. Nella città le torri
incominciate rimangono a mezzo, la gioventù
non si esercita più nelle armi, non manda
avanti la costruzione del porto e delle difese
di guerra: ed interrotte rimangono le opere,
gran muri minacciosi, palchi che toccano il cielo.
Quando la vide in preda a una passione tale
che non poteva frenarla nemmeno il timore di scandali,
Giunone Saturnia, cara moglie di Giove, aggredì
Venere in questo modo: “Tu e tuo figlio davvero
avete avuto una bella vittoria e gloriosi trofei!
È proprio un bel vanto per voi che una povera donna
sia vinta dall’inganno di due Numi potenti.
Certo, capisco bene che tu avevi paura
delle mie mura e tenevi in sospetto le case
dell’alta Cartagine. Ma dimmi, quali saranno
i termini ed il fine della nostra contesa?
Concludiamo piuttosto una pace durevole
con un bel matrimonio. Tu hai tutto ciò che hai voluto:
Didone brucia d’amore fino in fondo alle ossa.
Regniamo allora in comune sopra uno stesso popolo;
Didone serva e s’inchini ad un marito frigio
e ti consegni in dote il popolo di Tiro.”

Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
´Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent.
quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis.
credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille
iactatus fatis. quae bella exhausta canebat.
si mihi non animo fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna fatebor enim miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penatis
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. agnosco veteris vestigia flammae.
sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.´
sic effata sinum lacrimis implevit obortis.
Anna refert: ´O luce magis dilecta sorori,
solane perpetua maerens carpere iuventa
nec dulcis natos Veneris nec praemia noris?
id cinerem aut manis credis curare sepultos?
esto: aegram nulli quondam flexere mariti,
non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas
ductoresque alii, quos Africa terra triumphis
dives alit: placitone etiam pugnabis amori?
nec venit in mentem quorum consederis arvis?
hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,
et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;
hinc deserta siti regio lateque furentes
Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicam
germanique minas?
dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda
hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.
quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
coniugio tali. Teucrum comitantibus armis
Punica se quantis attollet gloria rebus.
tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis
indulge hospitio causasque innecte morandi,
dum pelago desaevit hiems et aquosus Orion,
quassataeque rates, dum non tractabile caelum.´
His dictis impenso animum flammavit amore
spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem.
principio delubra adeunt pacemque per aras
exquirunt; mactant lectas de more bidentis
legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,
Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae.
ipsa tenens dextra pateram pulcherrima Dido
candentis vaccae media inter cornua fundit,
aut ante ora deum pinguis spatiatur ad aras,
instauratque diem donis, pecudumque reclusis
pectoribus inhians spirantia consulit exta.
heu, vatum ignarae mentes. quid vota furentem,
quid delubra iuvant? est mollis flamma medullas
interea et tacitum vivit sub pectore uulnus.
uritur infelix Dido totaque vagatur
urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,
quam procul incautam nemora inter Cresia fixit
pastor agens telis liquitque volatile ferrum
nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat
Dictaeos; haeret lateri letalis harundo.
nunc media Aenean secum per moenia ducit
Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam,
incipit effari mediaque in voce resistit;
nunc eadem labente die convivia quaerit,
Iliacosque iterum demens audire labores
exposcit pendetque iterum narrantis ab ore.
post ubi digressi, lumenque obscura vicissim
luna premit suadentque cadentia sidera somnos,
sola domo maeret vacua stratisque relictis
incubat. illum absens absentem auditque videtque,
aut gremio Ascanium genitoris imagine capta
detinet, infandum si fallere possit amorem.
non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus
exercet portusve aut propugnacula bello
tuta parant: pendent opera interrupta minaeque
murorum ingentes aequataque machina caelo.
Quam simul ac tali persensit peste teneri
cara Iovis coniunx nec famam obstare furori,
talibus adgreditur Venerem Saturnia dictis:
´egregiam vero laudem et spolia ampla refertis
tuque puerque tuus magnum et memorabile numen,
una dolo divum si femina victa duorum est.
nec me adeo fallit veritam te moenia nostra
suspectas habuisse domos Karthaginis altae.
sed quis erit modus, aut quo nunc certamine tanto?
quin potius pacem aeternam pactosque hymenaeos
exercemus? habes tota quod mente petisti:
ardet amans Dido traxitque per ossa furorem.
communem hunc ergo populum paribusque regamus
auspiciis; liceat Phrygio servire marito
dotalisque tuae Tyrios permittere dextrae.´

Publio Virgilio Marone 

(Eneide, Libro IV, vv. 8-104)