Quando i colleghi sparano quella parola, “stupro”, credo d’essere nella jungla. Perché quel termine, intrinsecamente bestiale, è parte organica di comunità disastrate e sottosviluppate. Ahinoi, quello che mia nonna storpiava in “sturpo”, tanto era allora becero e impronunciabile il concetto di quella parola, è un miserrimo rituale delle carceri, delle caserme nell’era preistorica e inutile della leva, delle guerre, delle pulizie etniche e delle società arretrate come l’età della pietra. Quella in cui ci troviamo noi.

Ma, più della jungla, sgomentano le leggi della foresta che disciplinano la celoduresca indole degli animali che si scagliano sulle prede. Chi sbrana le vittime passa da infermo o pazzo, chi viene sbranato (atroce beffa) da poco di buono quando non da provocatore. Perché è questa la malata concezione che c’è. A volte, e fateci caso, sui giornali o in tv si ricorre a immagini cosiddette di repertorio, dove la vittima è rappresentata da ragazza sexy con le calze a rete strappate o reggiseno da night. Un messaggio atroce: se lo stereotipo è questo, si presuppone che chi ha subito in qualche modo ha offerto all’esterno un’immagine per così dire “invitante”.

Ho verificato coi miei occhi: le violenze sessuali sono rappresentate da immagini d’archivio che puntano nell’ottanta per cento dei casi sulla calza a rete o autoreggenti, anche nelle storie più tristi e misere. Purtroppo a soffrire una patologia morbosa è la società stessa, che non ha ancora metabolizzato lo stupro come un reato inqualificabile, degno delle pene più atroci per chi lo commette. Perché l’atto presuppone un dopo, che spesso diventa vergogna e poi tragedia. Quello che non si capisce è come ancora le iene s’impossessino dell’uomo fino a sostituirne il cervello. C’è un principio sacrosanto nel nostro mestiere: l’essenzialità della cronaca. Negli stupri assai poco spesso lo si osserva, tenendo anche in scarsa considerazione i destinatari del messaggio. Denunciare sì, ma con cautela nelle immagini. E massima, implacabile durezza nelle leggi per chi crede ancora d’essere nella jungla.