La baggianata più grande che si poteva leggere in questi giorni è quella dei volantini di Moro. Messi all’asta. A stento, si cerca di compensare l’amnesia sugli anni di piombo con operazioni discutibili. E, peraltro, ontologicamente inutili. I volantini di Moro, e così pure quelli di un Taliercio o di un Peci, purtroppo, si possono trovare senza frequentare delle aste. Sono inflazionati. Perché basta chiedere ai tanto vituperati giornalisti e ne tirerebbero fuori a manetta. Bussate da un cronista degli anni Settanta: nei meandri più nascosti conserva quei segni d’un tempo. Magari col suo nome impresso con le macchine da scrivere.

Per chi in quegli anni s’è visto bruciare auto o case, pagare quei volantini suonerebbe più che assurdo. Chiedete ai miei colleghi o qualche politico della Prima Repubblica se non ci credete. Tra loro, in pochi non si sono meritati una menzione di Br e dintorni. Ma si guardano bene dallo spiattellare in giro il materiale di quegli anni. Per esempio: giorni fa, su queste colonne, vi ho raccontato la storia di due signori di Serravalle di Chienti, proprietari della R4 di via Cateani. Quell’auto l’hanno donata (gratis) senza battere ciglio. Come reperto della storia e non come oggetto commerciale. L’altro giorno il figlio dell’appuntato Ricci, ucciso in via Fani, mi ha raccontato di un ricordo del suo papà: il borsello che aveva quella mattina. Un pezzo di storia e memoria conservato tra le mani calde d’un suo discendente, unico “sepolcro” consolatorio d’una scomparsa. Pensiamoci sopra quando parliamo di quei volantini.