La contrazione dialettale urbinate rimbomba in gola. Inequivocabile. “Ennio, arvoltàm”. Paolino Castellani, il ragno del Montefeltro, ingrana la retromarcia sul calcare massiccio, quasi patinato, del monte Nerone, alle prime frontiere montane del ducato d’Urbino. L’ultimo tiro di corda, poi quel segno convenzionale di dietrofront al compagno di parete, che è la discriminante del codice deontologico di cordata di Paolo: la montagna si ama, non si sfida. Perché la lotta con l’alpe, per Castellani, è stata un’appendice di vita, ma senza patetici eroismi e arditismi. Le vette, le creste, i pozzi delle grotte e gli orridi dell’Appennino pesarese-urbinate scorrono impetuosi come i fossi nell’opera  sfornata da Castellani, per le edizioni Stibu d’Urbania. E così le “Memorie di avventure tra monte Nerone e monte Catria” (così il titolo del volume) sono un album affettivo di vie e sentieri solcati in mezzo secolo di amore appenninico da Paolino e compagni, i primi a battezzare quei reticolati di chiodi sulle balze del crinale umbro-marchigiano delle terre che facevano più o meno capo al duca Federico.

Le ‘Memorie’ sono in rampa di lancio e di prossima uscita, ma il 15 maggio è previsto l’antipasto a Rimini, dove il volume sarà presentato alla turba di appassionati. Il bernoccolo dell’alpinismo si gonfiò a dismisura sulla fronte di Castellani nel biennio ’49-’50. Galeotto fu il viaggio a Montefiorentino e fino al Sasso Simone, in faccia all’arenaria del monte Carpegna, altro bastione del Montefeltro. Paolino, dall’alto dei suoi 76 anni, e da oltre mezzo secolo in parete, era in campeggio coi preti. Quel tratto di strada lo stregò e diventò il suo romanzo di formazione. “C’era una distesa – racconta – senza alberi e con le bestie al pascolo. Quello, allora, era il Sasso Simone. Niente di che. Ma, che ne so, mi innamorai a  prima vista”. E di lì l’infatuazione di Paolo s’inerpicò a pochi chilometri, sul Catria e sul Nerone, dove ogni alpinista di buona volontà non può nominare invano il nome di Castellani. Questa, la scintilla paesaggistica. Poi, la miccia intellettuale: “Eh, quella son stati i volumi che mi dava un mio amico sacerdote. Roba che raccontava delle imprese sugli Ottomila”. Poi vennero i reportage di Epoca sulle gesta degli italiani, ma Paolo, già, a quei tempi, imitava Maestri e Bonatti nei cugini rocciosi del Montefeltro, solcati con gli sci da alpinismo quando la neve bussa alle porte del Pesarese.

Paolino, pragmatico arrampicatore dallo spirito appenninico, è più d’un metro di paragone per chi arrampica alle rive del Candigliano. E’ un maestro silenzioso e garbato, con gli occhiali a mezz’asta alla Perboni di “Cuore”, dai tanti discepoli giovani e agguerriti. Ma quando lo incontri a Pesaro, con la sua bicicletta, ti guarda fisso negli occhi. E ti fa capire, in schietto urbinate, che la montagna è una signora perbene, che è piena di fanfaroni e millantatori, che va trattata in punta di piedi, senza grilli per la testa. Eccolo, Castellani. Lungo, occhialuto, passo classico, senza troppi gingili e firme addosso. Via il primo tiro. Via il secondo. Sempre come se fosse la primissima volta. Occhio. Metti il piede lì, la mano qui. E se c’è pericolo, via, ci “s’arvolta. E si va  mangiar le taiatelle, che problema c’è”. Questo è Paolo. Queste le sue “Memorie”. Per le altre amenità è meglio “arvoltar” pagina.