Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica non c’è Stato. E la esse maiuscola è voluta. Somiglia, piuttosto, al traghettamento dal Cesarismo all’Impero nella storia di Roma. Apparentemente tutto cambiava, ma nulla cambiava. Per farla breve: un gattopardismo. Male (o no?) d’ogni tempo. Se il Sessantotto non è riuscito, neppure lui, a portare l’immaginazione al potere, figuriamoci se potevano riuscirci eroi che somigliano piuttosto agli Sgommati della nota trasmissione che a lindi paladini del buon governo. Sommando al sesso sfrenato e ai forzieri rovistati (bipartisan) la totale afasia politica dal ’94 in poi, si direbbe che la parentesi è di quelle dal sapore medioevale. Abbiamo perso le sicurezze in ogni ambito che elementarmente le richiede: lavoro, scuola, futuro. E siamo tornati indietro di almeno cinquant’anni, con la differenza che non c’è più una guerra fredda ma un’incandescente apatia che genera danni incalcolabili. Diceva, forse giustamente, Antonello Venditti, dal palco d’un concerto: “Le mie canzoni sono attuali perché siamo tornati indietro di decenni”.

E se andiamo a rileggerci i filosofi degli anni bui della contestazione, comprendiamo che forse l’hegelismo e la sua sintesi stanno clamorosamente portando a un epilogo in cui lo spirito, anziché autoconoscersi, va disconoscendosi, violando la sua stessa ragion d’esistere. Anche Herbert Marcuse, l’idolo delle folle giovanili, lamentava un immobilismo ormai congenito nella società. Senza quasi soluzioni. Ed è un po’ la paralisi in cui versiamo oggi, costretti in un letto di antietica e antiumanità che non ha eguali nell’ultimo secolo. Le stimmate delle conquiste sociali sono, invece, quelle ereditate proprio da una parte della cosiddetta Prima Repubblica: l’articolo 18, lo Statuto dei lavoratori, la garanzia d’un posto, la libertà (seppur limitata), la democrazia a fronte d’una minaccia reale, l’istruzione e i suoi cardini, sradicati e ribaltati, per portare a un mucchio di maestre, esami di Stato farsa e università che lottano più sul marketing che sulla qualità. I reietti della Prima Repubblica lo erano così tanto rispetto ai manichini della Seconda? Un parlare più vicino alla ggente, con due g, come andava di moda sfoggiare alla fine degli anni Novanta, ha portato qualche briciola in più di democrazia? Ha forse sciolto la corruzione o sollevato l’economia? Congiunture internazionali, d’accordo. Ma con una buona dose di italianissimo sconcio. Abituato a vomitare sulle disgrazie altrui, preoccupato di liquidare in fretta il vecchio (senza storicistica consapevolezza) e ad abbracciare il nuovo. Il troppo nuovo. Avvezzo a scalciare i cadaveri, senza guardare che razza di gente partecipa al linciaggio.

Ricordo come fosse ora: l’invettiva populista contro gli uomini politici, lo scudo crociato, il garofano, la falce e il martello e tutti gli altri, liberali e repubblicani compresi, che, vuoi o non vuoi, avevano fatto la Costituzione e la Repubblica. Un colpo di spugna, con un detersivo fatto con gli stessi ingredienti di prima, rimescolati, ma sempre quelli. Con putride e nauseabonde nuove ricette. Ogni giorno di più tramonta l’illusione dell’Illuminismo di quei giorni del Novanta. Di pulizie repentine. Di palingenesi caricate ad artem. Il principe di Salina continua a governare. Impassibile. E noi a fare i sudditi. Senz’autonomia intellettuale. Colpiti dagli allarmismi. Dai catastrofismi facili e mirati. Dai Masanielli. Dai Tersite. Dagli Spartaco dell’ultim’ora. Morto un principe di Salina, se ne fa un altro. Questo è l’unico passaggio che c’è. Ci sarà. E c’è sempre Stato.