Non sia mai. Per carità. Mi hanno sempre insegnato a diffidare delle storie. Delle fiabe. Il mio mestiere è crudo: solo realtà. Intrisa di pragmatismo sensazionale. La terra è tonda, il sole illumina, la luna è la luna. Senza specchiarsi nel pozzo. Senza sognare. Verbo sacrilego. L’altra mattina, in un coccoloso pomeriggio di ferie, stavo scendendo dall’auto. Ero preoccupato. Della mia stanchezza. Me ne davo pena. Problema insormontabile. Avevo sciato come un matto tutto il giorno. Per ore, poverino. Ero lì, all’ombra del Rosengarten, il Catinaccio delle storielle acchiappaturisti della mitologia ladina, nella conca della fata Moena, laddove s’apre la val di “Fascia”, mussolinizzata in val di Fassa.

Mentre spalancavo la portiera dell’auto, in faccia all’albergo, piangendomi addosso per l’acido lattico accumulato nella gamba provata, ho avvertito una strana e inquietante presenza. Effetto della stanchezza, dell’inebriante spossatezza post sci. Un nodo alla gola, uno strano sgomento: un folletto sbilenco era lì, immobile, gli occhi scuri ma persi, le gambe piegate a forcella, i capelli neri. “No, qui, no, non è il tuo”, ha sibilato un vocino balbuziente, delicato ma fastidioso come uno di quei pifferi stonati che si gioca a suonare a scuola. Il folletto non aveva stivali, ma scarponcini fino alla caviglia, una giaccotta nera e lo sguardo ebete.

“Sì, sì”, l’ho liquidato. Ho chiuso l’auto. Me lo sono lasciato alle spalle. Dispettoso e sbilenco, ha sfilato il cappello di lana a una vecchia montanara che passava di lì. Quella, invece di dirgliene quattro, gli ha sorriso. E lui, più storto che mai, s’è dissolto sullo sfondo del Rosengarten. L’ometto zoppicante mi ha tormentato tutta la notte. Lo vedevo lì, la sera, quando andavo a fare due passi. Sempre immobile, fermo al parcheggio. A tutte le ore. “Vattene, folletto delle fantasie”, mi ripetevo. Il giorno dopo, stessa ora, stesso luogo, rispalanco la portiera e lui è lì. Sbilenco, sorriso beffardo, stavolta con una giacchetta verde, traina una ruspetta e un trattore in una montagnetta di ghiaia, ai confini del bosco di conifere.

Il suono stonato della vocina torna a tormentarmi: “Una mano, una mano”. M’avvicino: il folletto ha i tratti d’un bimbo. I dentini un po’ irregolari, come i miei nipoti, la testina spettinata, come i miei nipoti, gli occhi scuri, come i miei nipoti. Persino la vocina, acidula, diventa quella d’un ragazzino. “Io”, blatera, “chiamo Fabio? Tu?”. Lo fisso con diffidenza, poi mi sciolgo. Elemosina il mio nome. Glielo dico. Sorride, sguaiato ma dolce. Mi tende la manina. Anche quella pendente. Piacere, folletto della montagna. Traina ruspetta e trattore sul marciapiede. Attraverso la strada, lui saluta. Resta lì, a fare la guardia al parcheggio.

Ieri, ultima mattinata di sci, al rientro dal Buffaure di Pozza, Fabio è lì. E’ un bimbo di nove anni. Stavolta ha una piccola parananza bianca, uno zuccotto blu e sorride con gli occhi. “Ciao, Fabio”. I miei nipoti stanno lì con me. Ripetono in coro: “Ciao, Fabio”. Sta pasticciando con una vecchia carriola dei masi, con un sasso picchia su un chiodo, per rimettere a posto un asse. Giacomo e Sara lo guardano. Lui, sbilenco, chiede aiuto per rimettere in sesto quel rottame. Mio nipote corre a cercare un sasso più grande come martello, Sara l’osserva e sorride. Tra loro si capiscono. Parlano. Di colpo non blatera più. Ma parla, il folletto. E’ l’ora della partenza. Si devono lasciare le Dolomiti. Oltrepassare le colonne d’Ercole dei sogni, giù, ad Ala-Avio, confini della fiaba delle montagne.

Fabio, Giacomo e Sara hanno riparato quella carriola. Insieme. Ora salgono in auto. Salutano il loro amico. “Ciao, Fabio”. Il folletto si sbraccia, lo sguardo birichino, le gambe a forcella. Sul lunotto un quadro di montagne. A presto, folletto delle Dolomiti.