Clic  sinistro. Sul file. Quello della Federazione. Dei dilettanti. Sullo schermo, sfarfalla il pdf. Eccole, le squalifiche. Eccolo, quel purè misto di sgradevolezza e rusticità quando vai a scorrere con la freccetta le ammende, le sanzioni. Le motivazioni, soprattutto. «Cinque giornate di squalifica a Tizio, per aver picchiato e poi infierito quando era ancora a terra, l’avversario». E non è nulla: «Sputava — recitano più o meno così quei bollettini di guerra in burocratese — all’indirizzo dell’avversario, insultandolo e minacciandolo». L’«avversario» non era in trincea, ma in un campo. Di gioco. Giustamente la giustizia sportiva (il gioco di parole è voluto e sottolineato) s’abbatte implacabile. Ma non basta.

Il pallone s’è gonfiato. Ed è esploso. Sputando fuori una ruggine incrostata da anni. E che ogni settimana, noi, cronisti, raschiamo dai comunicati che seguono a ruota le partitelle della domenica. Non quelle del calcio altolocato, ma quello di Prima Categoria, dove lo scopo sarebbe tutt’altro che una rissa. Ma questo brufolone intriso di zozzo come e quando scoppia? Gli addetti ai lavori si fanno in quattro per scamparlo. Ma è recidivo. Solo un aneddoto: giorni fa sono andato a guardare il mio nipotino giocare a calcio. Nei pulcini d’una squadretta di periferia. «Dai, spaccalo, infilalo, fagli paura, massacralo», questi i consigli paterni degli altri paparini incollati alla gabbia dei loro «pulcini». Come molti campioni «luogocomunizzano», «questo è il calcio». Auguri.