Anche le sue nevrosi erano moderne. Anche il suo bambinesco cipiglio davanti alla macchina da scrivere ricorda quella compunzione di molti colleghi davanti al portatile. Dino era un inguaribile conservatore ma era anche un formidabile futurista. Nel senso del suo amore per ciò che era nuovo. E aiutava a vivere meglio. Ma col massimo rispetto per la persona e, soprattutto, la natura. Dino Buzzati Traverso, nel portamento, era un fighetto di oggi, a partire dal suo pomposo nome. E lo era anche nei lavori di penna e pennello. Capolavori esclusivi, fuori dal coro imbalsamato dei colleghi impastoiati dalle convenzioni letterarie e giornalistiche. Era proprio tra le colonne del Corriere che Buzzati, non curante del protocollo cattedratico e barboso dei precetti delle bibbie del giornalismo, creò un nuovo modo di scrivere. Elegante, ma colloquiale. Più in stile inglese che albertiniano. I compianti cronisti del suo tempo erano più nome che sostanza. Dispiace, ma è così. Buzzati era capace di lavorare in un anonimo ufficio province e trasformare lo sterco dei corrisponenti in fiabe di nera. Quella era la sua bacchetta magica. Che ricorda il nostro lavoro quotidiano.

Diceva il mio maestro, Paolo Nonni: “Qui si credono tutti Dante Alighieri. Ma essere un bravo giornalista, significa trasformare lo zozzo in oro”. A Buzzati, figlio di nobili, sui tristi deschi del Corriere arrivavano intraducibili porchette dislessiche dei collaboratori di paese. Lui riusciva non solo a renderle leggibili ma a farne delle notizie. Delle storie. Da antologia. E qui sta una parte della sua attualità: oggi il giornalista è per lo più un deskista. La sua abilità è acchiappare la notizia nell’acozzaglia di schifo inviato da fuori. Buzzati ce l’aveva insegnato decenni fa. Con una dote: i titoli. Sulla notizia ma anche oltre. Tre parole in senso critico. Come avrebbe poi fatto il Giorno di Pietra negli anni Cinquanta e poi tutti i giornali che oggi si rispettano. Dino Buzati era anche un precursore. Del giornalista inviato d’oggi. Che la notizia la mette sullo sfondo, dati i tempi di consumo in tv, e si dedica a dipingerla per esaltarne l’atmosfera. Celebre la descrizione del Vajont: immaginate un bicchiere sopra una tovaglia, scrisse, e gettateci un pezzo di qualcosa dentro.

La tovaglia era Longarone, il disastro la bomba atomica d’acqua precipitata dal monte Toc. E poi i delitti, i volti, i colori e il giornalismo di colore, che anticipò di brutto la poesia di Brera. Dino inventò il pezzo di colore al Giro. Il Corriere lo mise al fianco dell’inviato classico, tutto d’un pezzo. Lui, tra disegnini su un’agendina che somigliava a una Moleskine moderna, componeva affreschi che sovrastavano la notizia ortodossa. E che già tutti avevano appreso il giorno prima alla radio. Alla fine si leggeva solo Buzzati. Con lui capivi la classifica, il gesto sportivo e quello che c’era oltre. Quella tappa non te la scordavi più. Buzzati era già un multimediale, un giornalista condiviso. Tra pezzi, racconti in stile giornalistico e pittura. Viene da domandarsi, a quarant’anni dalla sua morte in punta di piedi, come avrebbe utilizzato un blog. O i meandri di Twitter. Lo vedrei bene come il direttore d’un giornale on-line, con un fanciullesco entusiasmo nella creazione di video e fotogallery. Lo vedrei col portatile in faccia alla Costa Concordia.

Lo vedrei descrivere il naufragio del decoro, col viso impassibile e lo stile sdegnoso. Ma lo vedrei anche lontano da poltrone altisonanti, lasciate a inguaribili arrivisti. Lo vedrei lì, in un angolo della sua redazione on-line, prendere agenzie e trasformarle in favole. Col viso impassibile ma innamorato dalla vita. Alla sua garitta giornalistica. Senza chiasso. Ma troppo moderno per essere morto quarant’anni fa.