Una sala vintage. A dir poco. E un film vintage: non nel senso della fattura, ma di quelli che così se ne vedono pochini. Come gli egregi design del tempo che fu. Se non avete ancora visto “Diaz”, correte a studiarvelo: montaggio magistrale, costruzione ineccepibile, reportage corretto e non banalizzato, a vivi colori neorealisti. Me lo sono visto ieri, in un cinema marchigiano che meriterebbe gli Oscar per le pellicole che mette su e per battersi (eroicamente) contro le multisale del nulla. Una sala arancio anni Settanta, con moquette pure sporche e divanetti crivellati da buchi di sigarette, ma il luogo ideale per gustarsi fino all’ultimo fotogramma questo film. Che non si sbilancia, che ricostruisce fedelmente, che non eccede, che non romanza. Racconta. Punto. Un servizio tv, inquadrato da prospettive e piani sequenza diversi.

“Diaz” è un come lungo articolo (di quelli che, ahimè, non si leggono e vedono più) che racconta l’assalto alla scuola genovese nel corso del G8. Gli attori parlano in lingua originale, non ci sono artifizi, ma solo tanta strada. La violenza non è gratuita, semplicemente tratteggiata a tinte chiare e forti. Documentate rigorosamente sugli atti processuali e giudiziari. Non è neanche gratuitamente contro. Ricorda, neanche tanto da lontano, un pregevole film di Nanni Loi, “Detenuto in attesa di giudizio”: scene forti, di libertà fatta a pezzi, ai confini della dignità umana. Racconta anche la storia di uno di noi: un cronista. Senza retorica, senza fiero sdegno, ma con garbo e precisione. Dopo “Romanzo di una strage”, “Diaz” è un degno successore del filone realistico-documentario. Da italiano, sarei orgoglioso s’esportasse ovunque. Per gli attori, per il regista, per la sceneggiatura. Buona visione a tutti.