Questa storia della Costa Concordia pare uno di quei B-movie degli anni Settanta. Perché contiene tutto: la catastrofe troppo esagerata per essere vera, le vittime, gli eroi, gli antieroi, le telecamere, il relitto che affonda, i palombari, i colleghi ciarlatani che spiano e straparlano, i mozzi, i capitani coraggiosi, il Titanic e chissà quali altre analogie.

La farsa è nata e iniziata nel momento stesso in cui ancora oggi, nel 2012, si  cerca di provare la puerile emozione di salpare in nave verso posticini che potrebbero benissimo essere raggiunti in aereo. E non lo si concepisce come atto sportivo, ma come sceneggiata turistica, con bandierine dai colori arcobaleno e succinti vestitini da sera. Si vuole giocare al panfilo, come quando da bambini facevamo la carrozza dei cow-boy con i plaid della mamma. Le tragedie nascono sempre lì. Quando il capriccio umano vuole sperimentare a tutti costi surrogati di emozioni.

Penso agli incidenti in montagna: a rimanerci sono spesso coloro che scelgono fuoripista senza una guida o coloro che salgono in elicottero per girare le Dolomiti, senza voler neanche mettere piede sulla roccia. Ai Caraibi o più banalmente in Grecia, posso arrivare in aereo. Poi affittare una barca e lì fare il vero navigante, senza lustrini, festoni e comandanti che sposano a bordo.

Le pagliacciate, le sirene, il ponte romantico, la cabina degli innamorati sono tutte comprese nel prezzo. Spettacolo puro. Con inchino finale, magari. E sipario calato veramente. Sulla vita. Come il Titanic, già. Col biglietto pagato. E le esistenze di chi ci crede trattate come un pop-corn al cinema. Al mattino, sulla strada per il lavoro, al porto di Ancona, vedo ancorati questi bastimenti. Non trasportano legnami o aiuti umanitari, ma portano a spasso, mascherati da piroscafi, ciurme di turisti. Dentro, uomini vestiti da marinai, nostromi e comandanti. Sul ponte, gente che ti guarda e saluta. Anche questo è compreso nel prezzo.