Liberalizzazione. E’ la parola chiave di questo governo in loden. Di questo autaomartellamento contro l’italico orgoglio. Ma non è certo una predisposizione mentale intrinseca agli abitanti del Belapese. Una dimostrazione? Beh, ieri pomeriggio,  mi è capitato sotto la tastiera il pezzo d’una collega, che a Jesi s’era fatta un giretto tra i negozi d’un centro commerciale. Dovevo passarlo, come si dice in gergo, cioè impaginarlo e provare ad azzeccare un titolo. In quell’articolo la collega riferiva di certe reazioni dei commercianti davanti alla liberalizzazione (eccola, la parolina magica) degli orari. Risposte: “No, è inutile”. “No, non servirebbe”. “No, ci porterebbe solo scompiglio”. “No, ci creerebbe solo problemi”.

Allo stesso tempo, e intelligentemente, la collega l’ha interpellati sull’andamento dei saldi. Risposte: “Quest’anno vanno bene”. “Quest’anno non possiamo lamentarci”. Il paradigma della città di Federico II può andare bene per le altre cittadine dell’Anconetano, in cui risuona più o meno lo stesso ritornello. E allora, le deduzioni sono, innegabilmente, due: la crisi sembra non esserci e, se c’è, e cerchiamo, come suggerisce il governo, di combatterla con la parolina magica (liberalizzazione), c’è chi non vuole darsi da fare per combatterla. Sorge un dubbio: non è che il problema sia invece di liberalizzazione della mente? Ecco, noi, il protezionismo, a volte ce lo creiamo da soli. Ma le nostre sono barriere e dazi intellettuali.

A volte si perde la bussola del dinamismo. E si castra la creatività o l’intraprendenza. Un problema del pubblico e del privato. Senza frontiere. E cioè: vogliamo sconfiggere la crisi e ci lamentiamo che esista, ma quando è ora di chinarci a tavolino o alla macchina riteniamo che si debba farlo fino a un certo punto. Zero sacrifici. Come se tutto fosse dovuto. Fateci caso: nei colloqui di lavoro per neoassunti, in Italia, la prima cosa che si chiede al datore di lavoro è: “Ma quando sono previsti i giorni di riposo? E quante le ferie? E quanto mi pagate?”. Ok, domande più che legittime, ma che sarebbe il caso di porsi dopo quella principale. Ovvero: prima penso a lavorare per il bene mio e degli altri e poi al frutto del mio lavoro. Quindi riposo e ferie e tutto ciò di cui un uomo vive grazie alla sua voglia di fare. Impegno significa anche benessere.

Perché farsi una bella sciata in montagna e una bella galoppata in moto in giro per il mondo sarà più di soddisfazione se grazie al frutto del proprio lavoro. E invece spesso l’entusiasmo di chi lavora viene scambiato per opportunismo o ambizione. Non sempre è così. Ma c’è chi non comprende e giù a mortificare il collega. Il caso dei nostri commercianti allergici alle aperture liberalizzate è d’una ottusità sconvolgente. Esco dal lavoro piuttosto tardi e per me è difficile fare la spesa se non lo faccio di mattina. Farebbe comodo trovare aperto alle 21, come accade anche in Portogallo, un supermercato. Invece no. Si preferisce alzare la serranda alle cinque e passa per poi chiudere quando teoricamente a decine avremmo bisogno di approvigionarci. Di lì i lamenti sulla crisi. Sempre che ci sia, perché i saldi, si dice, vanno bene. E allora mettiamoci d’accordo. Che vuole dire crisi?

C’è chi, scontento, ha preso la via dell’estero. Abbandonando affetti e famiglia. Trovando la sua strada, per poi magari, un giorno, tornare vincitore in patria. Ecco, io l’ammiro. Perché s’è rimboccato le maniche, combattendo in trincea contro il mostro della crisi. Più patriota di qualsiasi altro italiano che si lamenta e diserta il sacrificio. Buona domenica a tutti.