Sui cucuzzoli dove stiamo appollaiati noi, rozzi marchigiani, gira una filastrocca popolaresca: “Anno bisesto, di guai ne porta un cesto”. Che significa: “li pecuri (le pecore)” creperanno, lo “magnà” (il cibo) scarseggerà e “lu Padreternu te farà pentì de quello che fai quando si mortu” (traduzione facile). E’ la vecchia storia della fine del mondo. Che certe sette trasfigurano in immaginifiche religioni dell’autodistruzione. Ricordo, negli anni Ottanta (e non solo), intere masnade di adepti farsi saltare per aria in nome di non so che.

Il maestro del giornalismo, Dino Buzzati, scrisse molto nei suoi articoli di queste profezie, che stuzzicavano la curosità di anime alla ricerca di un trascendente di chissà quali dimensioni. Il grande Dino ripeteva che, chissà perché, periodicamente tornava nell’uomo questo anelito. Che torna a martellarci oggi. Di anno in anno, qualche fesso ripete che il tal giorno sarà quello della fine. Il giorno ultimo, in verità, al di là di ogni credo e profezia, è quello che ci creiamo noi. Che ci proiettiamo. Perché è con le piccole nefandezze quotidiane, con le nostre piccinerie, le nostre inutili vendette che ogni giorno forgiamo la nostra fine del mondo e della dignità. Di fatto, la vita, in cui più o  meno tutti crediamo, ci fornisce una grande occasione: quella di ricominciare daccapo ogni giorno (o ogni notte). Nascite, non morti presunte. Creazione e non distruzione.

E allora, anziché sederci in attesa della fine del mondo, stiamo qui, sulla sedia, a pensare come rigenerarlo. Alla faccia degli idioti siti che ci calcolano la fine della vita o dei mostri sacri della profezia che ci indicano l’abisso. Quello, ahimè, si fa sempre in tempo a imboccarlo. Buona giornata e buon inizio. E che lo sia davvero. Per tutti.