Il telefonino canticchia il suo refrain. Rispondo: “Hei, amico mio, come va?”. Il mio compare sta a Bologna. In piena campagna di Russia. Anche lui è uno dell’Armir. Col suo mezzo corazzato, una mini Nissan che ricorda i carrarmatini arrembanti del duce, gira per la Dozza. In nome del popolo italiano che lavora, ha agghindato con catene le ruotine. Così somiglia davvero a un cingolato del regio esercito. “Ciò, non sai che è successo”. “Dimmi mò”, gli rispondo io scimmiottando la sua chiacchiera. E lui, affranto: “Ciò, mi hanno fottuto le catene!”. Eh? Notizia. Eccole, le insidie della neve. Qualche crucco, come in “Italiani brava gente”, gli ha scippato i sonanti pendagli che ti salvano la pelle dalla tormenta.

Un massacro. Un paradosso: ladri che rubano catene, il simbolo della restrizione. Della punizione. Manco a “Nabule mille colore”. Con questo clima, i furfanti non si sognano di andare in bianco. Ma che sei matto. “Mo sai, mi sa tanto che è successo mica solo a me”, strascica le vocali l’amico mio. Ok, penso tra me e me, allora è proprio vero che le catene vanno a ruba. Ma io avevo capito nei negozi. Dove, comunque, non se ne trova più neanche una scatola. E allora che si fa? Esproprio proletario. Levi a chi ce l’ha e dai ai poveri. “Mi dispiace, Cecco”, gli dico io. E lo rincuoro: “Beh, se a Bologna fottono le catene, qui, nelle Marche, c’è di peggio”. Lui: “Ah, e sarebbe?”. Io, imbrazzato: “Dai uno sguardo alle webcam di Ascoli”. Mi prende in giro: “Cosa vuoi, tra le pecore…”. Certo, tra le pecore. Lo spiazzo: “Voi avete il Nettuno che fa atti osceni in luogo pubblico da centinaia d’anni, noi abbiamo un fallo di venti metri disegnato sulla neve, in piazza del Popolo”. Che è lì. In bella mostra. Eccole, le cartoline dall’Italia innevata. Passo e chiudo.