I CONTORNI della scure sulle Regioni diventano più chiari con il materializzarsi, finalmente, della relazione tecnica della legge di Stabilità. Innanzitutto, si scopre che il trasferimento al Fondo sanitario nazionale fissato a 111 miliardi (invece di 113) viene congelato su quella soglia fino al 2019. Ma non è tutto. Oltre ai due miliardi di minore aumento del fondo (che per lo Stato comporta 1,7 miliardi di risparmi) per i governatori è in arrivo una stretta di pari entità, che farebbe salire lo sforzo per il prossimo anno a quasi 4 miliardi. Lo ha ammesso ieri il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, spiegando che «c’è un piano di rientro di 2 miliardi di euro previsto perché sono emersi dei buchi per una gestione delle risorse che dovevano essere usate per pagare i debiti della Pa e che invece sono state usate per spesa corrente». Piano che sarà definito con i governatori ma, intanto, nella manovra, alla voce ‘effetti del passaggio al pareggio di bilancio sulle Regioni’ compare la cifra di 1,8 miliardi (1 miliardo nel 2017 e a 660 milioni nel 2018).

SE A QUESTO aggiungiamo il blocco degli aumenti dei tributi locali che esclude le Regioni in deficit sanitario (in tutto otto), ecco che il rischio di aumento di addizionali o ticket è più che concreto. «Nessun automatismo sui ticket, decidono le Regioni», assicura il responsabile sanità Pd Federico Gelli. E, in effetti, nella manovra la parola ticket non compare ma è, ovviamente, una leva per far tornare i conti.
ALLARGANDO lo sguardo al menù della manovra, si vede che i tagli di spesa (tra spending review e efficientamenti) salgono a 7,9 miliardi ma, con le maggiori uscite per finanziare i vari provvedimenti, la sforbiciata finale è di 2 miliardi. Sul banco degli imputati finisce la spending review, considerata troppo timida e soprattutto fatta perlopiù con tagli lineari. Dalla razionalizzazione della spesa per beni e servizi nella Pa, infatti, arrivano solo 216,3 milioni di risparmi. Per i ministeri c’è una stretta di 3,1 miliardi che, considerando la riduzione di alcuni stanziamenti (tra cui quelli alla Presidenza del Consiglio), sale a 3,6. Si prevedono poi ulteriori tagli lineari di 2,5 miliardi nel 2017 e di 1,7 miliardi nel 2018. Altri risparmi arrivano dalla scure sul fondo taglia tasse (800 milioni), sui Caf (100 milioni) e dalla stretta sul turn over della Pa (44 milioni).
Capitolo tasse. A fronte di 7 miliardi di tagli fiscali e della sterilizzazione degli aumenti di Iva e accise per 16,8 miliardi il prossimo anno, resta la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia: un’eredità di 15,1 miliardi nel 2017 e di 19,5 nel 2018. E se dalla voluntary disclosure non arriveranno due miliardi dal primo maggio aumenteranno le accise.

SPUNTANO, poi, novità fiscali per l’agricoltura: il coefficiente di rivalutazione per i terreni agrari e dominicali balza dal 7 al 30% mentre l’imposta di registro sui terreni agricoli tra soggetti che non sono coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali passa dal 12 al 15%. Misure che porteranno un extra gettito Irpef stimato di 71 milioni. Dettagli che precisano la fisionomia di una manovra da 26,5 miliardi, finanziata per oltre la metà in deficit. Il testo, con il ‘sigillo’ del Quirinale, è arrivato in Senato. Lunedì Grasso lo trasmetterà alla Commissione Bilancio convocata per la mattina seguente. L’obiettivo è chiudere le audizioni entro il 3 novembre, poi l’esame della manovra entrerà nel vivo. Dead line a Natale.