UN DATO dà la misura del passo compiuto ieri dal governo Letta con il decreto scuola: dal 1995 a oggi — secondo gli ultimi dati Ocse — l’Italia è l’unica nazione dell’area a non avere mai aumentato la spesa procapite per studente contro il 62% in più di fondi stanziati mediamente dagli altri paesi sviluppati. Alla faccia delle migliaia di pagine scritte da istituzioni nazionali e internazionali, centri di ricerca, esperti di varia estrazione, sull’importanza dell’istruzione e della conoscenza non solo come valore in sè, ma come strumento di crescita sociale ed economica. Le misure volute dal ministro Carrozza consentono, in particolare, alcune valutazioni senza cascare nella trappola retorica del «paese che investe sul proprio futuro». La prima: sembrano pensate con in testa i conti e i ragionamenti che si fanno in qualunque famiglia con figli in età scolare e universitaria. La seconda: le misure dicono che è meglio essere bravi che furbastri.

DANNO risorse per premiare il merito e dare opportunità a chi, meritevole, non avrebbe senza sostegno economico la possibilità di studiare o di continuare il proprio percorso di istruzione. È, probabilmente, l’unico modo per sbloccare un ascensore sociale inceppato da anni anche con la complicità della crisi economica. La terza: le misure pongono le basi per una trasformazione digitale del mondo dell’istruzione, incentivando l’utilizzo delle connessioni wi-fi a Internet e l’uso in comodoato degli e-book. La quarta: valorizzano l’importanza del lavoro. Quello degli insegnanti e quello che gli studenti sono invitati a svolgere durante gli studi. Affinché non sia più possibile — come ha auspicato lo stesso ministro Carrozza — arrivare a 25 anni senza aver lavorato neanche un giorno.
EVITANDO di entrare nei dettagli tecnici della riforma — e al netto del pasticcio sul bonus maturità abolito mentre sono in corso i test universitari — il decreto scuola è prima di tutto un fatto politico che, a prenderlo sul serio, pone una sfida alle future generazioni di statisti e amministratori: creare un paese che possa accogliere e dare risposte a una popolazione più istruita e colta. Allevata a rispettare il merito e a chiedere, di conseguenza, che anche il proprio trovi il giusto riconoscimento. In grado, insomma, di interpretare al meglio ciò che Luigi Einaudi sosteneva essere un dovere per l’uomo di governo: conoscere per deliberare. Che la politica possa permettersi un paese così, però, è tutta un’altra storia.

 

Pubblicato su Qn martedì 10 settembre