IL PREMIER Enrico Letta, per i maestri che ha avuto e per il curriculum che vanta, è uomo che sa di economia. Tanto più lo è Fabrizio Saccomanni, ministro delle Finanze, di scuola Banca d’Italia. E’ credibile, quindi, che le manovre da loro messe a punto siano la zuppa dal sapore giusto a calmare gli appetiti delle istituzioni finanziarie europee e internazionali. In attesa di conoscere i dettagli delle misure — luoghi preferiti dal diavolo per farci il nido — somiglia invece a un atto di fede credere che il volume di fuoco della manovra sia adeguato a soddisfare l’annunciata ambizione di dare la scossa alla rattrappita economia italiana per consentirle di agganciare un po’ di ripresa o, almeno, come sostiene Confindustria, di non allontanarla.
Il realismo dei numeri può bastare a giustificare ed apprezzare quel che c’è nella manovra, ma il punto dolente è quel che non c’è.

COME le decisioni sulla ripartizione dei 5 miliardi indicati per la riduzione del cuneo fiscale a favore di lavoratori e imprese o la riforma delle aliquote Iva, entrambe rinviate al Parlamento. Non ci sono la scossa, ma neppure un’idea di sviluppo del paese e l’ossigeno adeguato per risolvere problemi come quelli ricordati nel 2009 dall’attuale Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel saggio «L’economia della conoscenza»: «Aldilà degli effetti assai pesanti della crisi finanziaria in corso — scriveva Visco — è da molti anni che il reddito degli italiani non cresce più … Sono venuti al pettine i nodi fondamentali dell’inadeguatezza del capitale (fisico, umano e di conoscenze) impiegato nei processi di produzione, del basso contenuto di innovazione delle nostre produzioni, dell’eccesso di regolamentazione che grava sull’attività produttiva, dell’inefficenza della pubblica amministrazione». Visco chiedeva misure per «accrescere il capitale umano» perseguendo «più alti livelli di istruzione, formazione conoscenza» puntando su «qualità, valutazione e riconoscimento del merito». Una direzione presa da Letta col decreto sulla scuola, mostrando forza e visione che nella manovra sembrano annacquate dalla friabilità dei conti e dalla fragile alchimia di un governo nato con il Dna delle “larghe intese“ e geneticamente modificato in “diversamente politico”. Prova ne sono, tenuti fermi i saldi, i rinvii al Parlamento e al confronto con le parti sociali. Correndo il rischio dell’assalto alla diligenza e di uno scenario descritto così da un ex ministro delle Finanze: «Troppe volte in passato il cerchio della contesa sociale è stato fatto quadrare addossando alla finanza pubblica oneri impropri e indebiti: prezzi politici, sussidi, salvataggi, agevolazioni, sgravi, fino a negare alla finanza pubblica il suo scopo originario, che era quello di fornire servizi pubblici e infrastrutture efficienti, al minimo costo e per il massimo vantaggio dei cittadini. La società italiana avverte confusamente oggi come nelle sentine del bilancio si siano accumulati privilegi ingiusti, soluzioni di facilità, erogazioni incontrollabili. La finanza pubblica, appesantita da questi sedimenti, può aiutare l’economia a sopravvivere, ma non può aiutarla a svilupparsi». Parole di Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta. Era il 1982.

 

Pubblicato su Qn mercoledì 16 ottobre 2013