UN TEDESCO, un francese e un italiano entrano in una banca per chiedere un prestito: al primo viene concesso alle condizioni migliori con qualche garanzia, al secondo viene chiesta qualche garanzia in più e interessi un po’ più alti, al terzo impegni pesanti e tassi ancora più elevati. Il tedesco torna a casa tira un po’ la cinghia, rimette un po’ a posto i propri conti, torna in banca e strappa condizioni migliori. Il francese, con un po’ più di fatica, segue la stessa strada. L’italiano non rinuncia a nulla, non sistema i conti, ma ipoteca la casa della nonna, i gioielli della bisnonna e indebita la famiglia fino ai nipoti dei pronipoti. Ottiene i soldi impegnando una fortuna che pagherà qualcun altro e dà la colpa alla banca. Se fosse una barzelletta farebbe ridere, purtroppo somiglia a un irriverente sunto della storia della finanza pubblica d’Italia da qualche decennio a questa parte. Storia che le fibrillazioni di governo in corso non consentirebbe di ignorare.
COME non la ignorano le agenzie di rating che stanno alla finestra con la scure sul davanzale.
L’Italia ha oltre duemila mliardi di debito pubblico. La prima giornata di crisi a mercati aperti ha visto Piazza Affari contenere le perdite, i rendimenti dei titoli di Stato rimanere più o meno gli stessi di venerdì, così come lo spread con i titoli tedeschi. Poteva andare peggio? Sì, ma il nocciolo duro è un altro: il livello del debito italiano resta troppo alto e costoso da mantenere, troppo pesanti le conseguenze indirette — anche in termini di competitività — che si trasmettono ai tassi di interesse su mutui e prestiti a famiglie e imprese. La crisi, invece, ha mosso all’insù le quotazioni dei Cds, assicurazioni per proteggersi dalle insolvenze: ieri assicurarsi contro il rischio Italia costava un po’ di più rispetto al fine settimana.
DALLA finanza all’economia reale: oggi scatta l’aumento dell’Iva dal 21 al 22%. Con la crisi in corso rischiano di rimanere buone intenzioni la rimodulazione della medesima imposta sui consumi, gli interventi sull’Imu, la messa a punto della Service tax, la riduzione del cuneo fiscale a favore di imprese e lavoratori, un taglio importante della spesa pubblica improduttiva. Restano aperti i dossier e indefinite le scelte strategiche su Alitalia, Telecom, Ilva. Si allontana la prospettiva di approvare una legge di Stabilità che consenta non solo di evitare l’esercizio provvisorio, ma sia in grado di dare fiducia a investitori e istituzioni internazionali. Misure che vanno da quelle per riportare il rapporto deficit-Pil sotto al 3% a quelle per agganciare un minimo di ripresa. Ieri, per esempio, il Centro studi di Confindustria ha stimato un timidissimo soffio a settembre: un + 0,2% rispetto ad agosto che non cancella quel -24,8% rispetto a prima della crisi (aprile 2008) ma è pur sempre un gancetto debolissimo al quale potrebbero appendere le ultime speranze oltre 3 milioni di disoccupati e i contribuenti che subiscono una pressione fiscale al 44,5% del Pil a fronte di un evasione attorno al 27%. Sarebbe sufficiente che domani, nel momento in cui il Senato e la Camera saranno chiamati a dare o a negare la fiducia al premier Letta, si parlasse della solitudine di un Paese raccontata da questi numeri per muovere un passo nella direzione della stabilità necessaria. Sperare è esentasse, per ora.

 

Pubblicato su Qn martedì 1 ottobre 2013