LA SCIMMIA vede, la scimmia fa. La regoletta in voga dagli anni ’20 nei corsi per i manager americani (monkey sees, monkey does) si può tradurre in italiano con un più efficace «dare il buon esempio» affinché tutti i componenti di una comunità facciano altrettanto. In Italia la lezione non vale, se non per gli esempi cattivi. Si prenda il caso Sorrentino: il suo film, «La grande bellezza», vince il Golden Globe e profuma di Oscar. Il regista italiano ringrazia questo «strano paese, meraviglioso», suggerisce che «saranno le eccellenze a salvarci» e non parla solo di cultura e di arte, ma di quella creatività e saper fare che dal Rinascimento in poi incarna il genio italico sulle onde sinusoidali di fasti e declini. Poi, a neanche 24 ore di distanza, scopri che piove sul Vasari. Piove dal tetto della chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri — secondo monumento di Pisa dopo Piazza dei Miracoli — perché i lavori di restauro si sono incagliati nella solita giungla di piccola e grande burocrazia nonostante i fondi necessari siano stati già stanziati. Il rettore, monsignor Armani, sposta secchi e stracci bagnati e mira a preservare come può lavori già salvati grazie a contributi privati. Alla faccia della grande bellezza.
E del Pil.

 

LA SCIMMIA vede, la scimmia fa, però, racconta anche di come sia facile, tra simili, imitarsi l’un l’altro, specie nelle cattive abitudini. Accade così che i partiti e il governo sembrano tutti trasformati in uffici studi. I primi dovrebbero essere strumenti per raccogliere il consenso e fare leggi. Il secondo dovrebbe governare. La loro attività principale, invece, sembra essere diventata quella di scrivere agende, piani e prove di riforma che danno ogni giorno vita a dibattiti al limite del surreale: Renzi ha il suo Jobs act, Letta il suo Impegno 2014, Ncd ribatte con i suoi punti, Forza Italia anche, Grillo pure, Scelta civica a ruota. E via dicendo. Documenti ricchi di ottime idee, per carità, ma lette già tante volte quante quelle che sono rimaste carta da macero.

PIANI ricolmi di spunti, la maggior parte dei quali però — i più interessanti — non agita discussioni se non quelle che ruotano attorno alle regole del mercato del lavoro. Solo che in questo paese il lavoro non c’è più, il debito pubblico ha aggiornato un altro record, la pressione fiscale è aumentata, le riforme strutturali e istituzionali languono. Però se ne parla e si distilla sapienza nei 140 caratteri dei messaggini di Twitter, come se le speranze di ripresa illuminate dai primi dati positivi sulla produzione industriale e dal calo dello spread, non siano messe in ombra dallo spettro della deflazione. Come se il lumicino in fondo al tunnel consentisse di rilassarsi e dimenticare che, in realtà, è pochissimo il tempo a disposizione per raccogliere il frutto dei sacrifici di famiglie e imprese abituate, loro sì, a imitare i migliori esempi per sopravvivere a ostacoli creati spesso da chi dovrebbe toglierli. Ostacoli che anche quest’anno hanno regalato all’Italia l’86° posto, dietro a Kyrghizistan e a Samoa, nella classifica della libertà economica stilata da Wall Street Journal ed Heritage Foundation. Ultimi tra i paesi industrializzati. Azzoppati da peso dell’interferenza politica, corruzione, alti livelli di tassazione, mercato del lavoro rigido, costi della burocrazia, economia sommersa, complessità normativa e alti costi del fare impresa. Incrostazioni che si tolgono solo governando. Anche copiando, come le scimmie insegnano, da chi sa fare meglio.

Pubblicato su Qn mercoledì 15 gennaio 2013