Uscire dall’euro per ritrovare libertà e sovranità monetaria come sentiamo, e sentiremo dire sempre di più, nelle piazze della politica, non è operazione priva di conseguenze. Tutt’altro. Vediamone alcune: 1) fuga di capitali. Non è difficile capire che molti investitori andranno a rifugiarsi dove la moneta eè più forte.
2) Rischio crac. Ritornare alla lira o a una qualsiasi valuta più debole dell’attuale euro comporterebbe due possibilità per i 2mila miliardi di euro del nostro debito pubblico. La prima: il debito viene tutto rinominato nella nuova valuta (lire). I nostri creditori (fondi stranieri, famiglie, banche…) si troverebbero in mano teoricamente crediti che valgono meno ma, altrettanto probabilmente, chiederanno allo Stato di onorare gli impegni e di essere ripagati in euro. Bell’affare. Secondo: il debito viene mantenuto in euro. In questo caso, però, gli interessi li pagheremo in lire. Altro bell’affare. Più o meno insostenibile.
Import-export. I sostenitori del ritorno ai benefici della svalutazione competitiva dimenticano sempre con piacere due aspetti. Il primo: se c’è una cosa che va bene nell’economia italiana è l’export. Le imprese più globalizzate (vedi alcuni begli esempio della meccanica emiliana o il lusso e la moda) sono quelle che stanno avendo le performance migliori e alle quali dobbiamo quel briciolo di crescita che si intravvede. Imprese, semmai, penalizzate dallo spread e, dunque, dal nostro debito pubblico. La seconda: tra le nostre importazioni di rilievo c’è l’energia. Provate a pagare il petrolio o il gas (una settaantina di miliardi di euro) in vecchie lire e tirate le somme. Risultato: un disastro.
Inflazione. Il costo dell’energia va di pari passo con l’inflazione. La crescita a colpi di svalutazione competitiva avrebbe prezzi altissimi. Li abbiamo già visti. Riporto di seguito quanto scritto nel settembre 2011 da Ubs in un rapporto dedicato proprio all’uscita di un paese dell’Eurozona dall’euro: I costi per un’economia “debole” — dice Ubs — dell’uscita dall’euro sono enormi. La svalutazione non sarebbe in grado di offrire supporto all’economia, e sarebbe accompagnata dal collasso del commercio con l’estero, crisi del settore industriale e del settore bancario, e default del debito sovrano. Il danno effettivo pro-capite sarebbe tra i 9.500 e gli 11.500 euro a cittadino per il primo anno, e tra i 3.000 e i 4.000 Euro negli anni seguenti. Solo nel primo anno, andrebbe “bruciato” tra il 40% e il 50% del PIL”.
I costi di uscita per un economia “forte”. Le conseguenze sarebbero il crollo del commercio internazionale, crisi del settore industriale e necessità di ri-capitalizzare il sistema bancario. In termini di costi, questo vorrebbe dire tra i 3.500 e 4.500 euro a cittadino, per un valore complessivo pari al 20-25% del PIL. Ai cittadini tedeschi costerebbe molto meno “salvare” Grecia, Irlanda e Portogallo, che costerebbe circa 1.000 euro a testa.
Le conseguenze politiche. I costi economici sarebbero la conseguenza meno grave: un’uscita dall’euro comporterebbe anche la perdita di influenza a livello internazionale. Sia a livello di PIL che a livello di popolazione, l’Europa nel suo complesso può rivendicare di rappresentare una parte rilevante “del mondo”, un singolo stato avrebbe molta meno voce in capitolo. Inoltre, gli analisti di UBS osservano che nei tempi moderni non è mai successo che le rotture di unioni monetarie non fossero collegate anche a regimi autoritari o a guerre civili».
Buona scissione a tutti.