AVVISO ai naviganti: la politica dei tassi al minimo e degli stimoli all’economia prima o poi finirà. «Non sappiamo cosa succederà e per questo dobbiamo prepararci alla sfida». Parole e musica del nuovo capo del dipartimento economia della Banca dei regolamenti internazionali, l’italiano Claudio Borio che consiglia ai governi di adottare «politiche solide» in vista di un possibile cambio di vento. I timori dei mercati per il rischio paese sono una delle cause — tra le altre — di un fenomeno ben noto alle locomotive italiane che concorrono sui mercati globali e alle cui esportazioni sono legate le speranze di ripresa: a 5 anni dal crac Lehman — sottolinea la Bri — e malgrado le politiche straordinarie messe in campo dalle banche centrali come la Fed e la Bce infatti le aziende italiane e spagnole pagano ancora spread sui tassi per i prestiti piu alti di 200 punti rispetto a prima della crisi.

CE N’È abbastanza per sostenere che un Paese con duemila miliardi di debito pubblico non può permettersi né di non avere un
governo, né di avere un governo che non riesca a fare le riforme necessarie per ripartire. Non è solo questione di soldi per non
sfondare il tetto del 3% e mantenere gli impegni di togliere l’Imu, non aumentare l’Iva o ridurre le tasse sul costo del
lavoro. Ci sono riforme che l’Italia attende da anni e che potrebbero costare poco o nulla. Una per tutte, quella della burocrazia. A
cominciare dal Fisco. Non è possibile competere se da oggi alla fine dell’anno le imprese italiane debbono affrontare—secondo
Confesercenti—187 scadenze fiscali, quasi due al giorno. Non è possibile competere se un’impresa italiana impiega—secondo
Confcommercio—269 ore di lavoro l’anno per adempiere agli obblighi fiscali. Il doppio della Francia, il 60% in più della
Spagna, il 30% in più della Germania. Un costo vivo che ogni anno tocca i 10 miliardi, il 50% in
più della media dei Paesi Ue.

L’ELENCO dei nodi scorsoi potrebbe continuare quasi all’infinito: dalla durata delle cause civili—denunciata più o
meno all’inizio di ogni anno giudiziario—ai ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, quando vanno a buon fine. Dalla riduzione del
numero dei parlamentari in rapporto alla popolazione al taglio delle province o, al meglio, una profonda operazione di revisione
della spesa, capitolo per capitolo, che riduca le inefficenze senza compromettere servizi per i quali i cittadini e le imprese affrontano una pressione fiscale che supera il 50% del Pil. Per non parlare della necessità di affrontare senza scorciatoie demagogiche il nodo dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli per un Paese in gravissima crisi demografica. O di politica industriale in un paese
che sulla scia del caso Riva-Ilva— senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria—rischia un colpo di grazia alla nostra
siderurgia con conseguenze inevitabili per la seconda manifattura d’Europa. Non sono questioni di bilancio, ma di riforme e scelte politiche. Non dovrebbe servire l’arrivo di un postino della Bce per essere obbligati ad attuarle, basterebbe ascoltare la generazione bruciata dalla crisi. Altrimenti ben venga una lettera a firma Mario Draghi.

 

Pubblicato su Qn lunedi 16 settembre 2013