Quando venne accolto nel paradiso dei 500 paperoni del mondo certo non poteva immaginare di ritrovarsi, solo pochi anni dopo, in guai finanziari tanto seri: la blasonata rivista Forbes indicò Romain Zaleski al 488° posto, con due miliardi di dollari di patrimonio, della esclusivissima classifica planetaria dei facoltosi a nove zeri. Era il 2007. Ma tanta fama non sembra più incantare Unicredit, che ha perso la pazienza dopo anni di non belligeranza e a fine luglio ha lanciato l’ultimatum alla Carlo Tassara spa: onorate i vostri impegni, cambiate la governance. In fretta.

Così da stella del firmamento borsistico è ripiombato sulla terra degli afflitti dai debiti quel raider scaltro e sorridente di nome Romain Zaleski, ottantenne parigino figlio di immigrati polacchi, ingegnere laureato all’Ecole nazionale supérieure della Ville Lumière e italiano d’adozione da almeno sette lustri, dalla presa del comando della Tassara.

I trader di mezza Europa lo hanno adorato e lo seguivano nelle acrobazie finanziarie, rilanciate nel tam tam di siti web e blog. Centrò alcune ricchissime plusvalenze con Falck, Montedison, Edison. Entrò nel salotto buono di Piazza Affari mettendo nel suo portafoglio quote di Intesa Sanpaolo, le Generali che sta cedendo in questi giorni, A2A, Mediobanca, Mps, Ubi banca, Bpm e Mittel, di cui detiene ancora il 18,997% del capitale e dov’è tuttora vicepresidente: il suo fu un ingresso trionfale nel capitalismo di relazione degli intrecci societari e dei patti di sindacato.

Si destreggiò nelle scatole cinesi di Hong Kong, Lussemburgo, Bermude. Fu pure splendido mecenate con una fondazione accasata ad Amsterdam. E, a Milano, fu uno dei padri della Fondazione Etica, che ancora si prefigge di elaborare una “nuova idea di Paese, basata su una moderna etica pubblica”: il battesimo fu celebrato il 2 ottobre 2008. Un paio di settimane prima il più grande crac della storia americana aveva minato la stabilità mondiale e annunciato il flagello dei mercati finanziari. In quella sciagura il raider franco-polacco ci finì con testa e piedi, visto che le sue scorribande erano prevalentemente finanziate dai prestiti delle banche (sei miliardi di euro). Tutto bene se il mercato sale, altrimenti si piomba nel baratro come quello odierno: esposizioni stimate oltre due miliardi, valore delle partecipazioni attorno a 1,2 miliardi. Bilancio tormentato.

Unicredit vuole la restituzione dei suoi 500 milioni di prestito e fa la voce grossa con la lettera nella quale ha intimato interventi tangibili e immediati. In caso contrario scatterà la vendita degli asset quotati della Tassara: il conto alla rovescia è ormai al termine, il d-day è dietro l’angolo. Forse la settimana prossima. Un bel guaio, non solo per la holding. Le Intesa Sanpaolo sono in carico a 3,5 euro (centesimo più, centesimo meno) e oggi valgono meno della metà, le Mps sono ferme a un settimo del valore al quale vennero acquisite e le Ubi a un terzo. La cessione si trasformerebbe in un bagno di sangue che la Tassara tenta di scongiurare.

Un accordo sarebbe pronto, con la conversione in capitale di una parte di quanto dovuto, l’allungamento della moratoria per il resto del debito e la maggioranza del cda della Tassara in mano alle banche. Zaleski non si scompone, gioca: “Non mi sento affatto un finanziere, non ho conoscenze della finanza moderna” ha dichiarato con candore a un giornale locale il giorno del suo ottantesimo compleanno. Se mai ce ne fosse bisogno, un colpo suicida al mito di oracolo dei mercati che si era costruito. Ora si diletta con il bridge, attività molto gettonata da ex finanzieri come Jimmy Cayne, che portò al maxi-fallimento della banca Bear Stearns ma si gode sui tavoli verdi il suo patrimonio di 500 milioni di dollari: “Questo gioco è come la vita, fatta di passione e concentrazione” commenta il filosofico Romain, uscito con disinvoltura dal salotto buono, e ormai logoro, del capitalismo italiano. Ma al tavolo della trattativa finale potrebbe essere ancora lui a giocare un’ultima carta.