Già avviato il tapering della Banca centrale americana?  Qualche analista ci scommette, ma bisognerà attendere ancora qualche giorno per l’eventuale ufficializzazione. Nell’agenda degli investitori è cerchiata di rosso la data del 6 dicembre, in quel primo venerdì del mese verranno comunicati i numeri del mercato del lavoro negli Stati Uniti: fossero ancor migliori delle già rosee previsioni, potrebbero confermare la Fed nella sua volontà di limitare in modo graduale la politica monetaria espansiva. Senza la “droga” della liquidità a stelle e strisce, 85 miliardi di dollari al mese, si temono sedute sulle montagne russe per i mercati finanziari che già soffrono di vertigini per le quotazioni record: il più conosciuto indice di Wall Street, il Dow Jones, ha messo a segno il miglior incremento del decennio, con un aumento dei corsi azionari superiore al 20%. Il Nasdaq, il listino tecnologico, ha fatto ancor meglio ed è volato ai livelli del Duemila ma benissimo si è comportato anche il Dax di Francoforte, sopra il record di 9.300 punti. Il principale indice giapponese è del tutto euforico grazie al balzo di 50 punti percentuali da inizio 2013.

Rimane nel sottofondo, cupa come un presagio, la considerazione che gli andamenti da primato delle Borse non corrispondano a un’espansione altrettanto sbalorditiva dell’economia reale: il timore degli investitori è che le quotazioni siano “in bolla”, cioè legate all’abbondanza di denaro donato dalle banche centrali e non sorrette dai fondamentali economici. Quindi destinate a ridimensionarsi con il mutamento della politica monetaria.

La previsione finanziaria è pratica spesso inesatta e poco affidabile, ma il 6 dicembre potrebbe portare con sé la conferma di una prima inversione nella politica accomodante della Fed e innescare le vendite tra i gestori del risparmio e gli investitori, che metterebbero al sicuro i guadagni dell’anno con il pretesto del tapering. I più guardinghi lo stanno già facendo.

In un quadro del genere restano più che problematici i listini italiani, nonostante si ritrovino in una situazione molto diversa: lontani un abisso dai massimi pre-crisi, i titoli delle società più rappresentative sono generalmente sottoquotati.  Scontano il gap del paese, che li fa scendere più degli altri nei momenti di debolezza e crescere meno degli altri nelle fasi migliori, pur con qualche eccezione: Piazza Affari, ormai marginale, è precipitata al 23esimo posto nelle graduatorie dei mercati finanziari e vale meno di un insignificante 1% delle borse mondiali. Soffre per vizi storici e per il quadro politico sempre litigioso e spesso incapace di definire una prospettiva: come tutta l’Italia, avrebbe bisogno di fiducia nel futuro e di leadership convincenti, per riaffermare il valore dell’eccellenza di casa nostra e cercare, finalmente, il riscatto.