Ci siamo di nuovo: da una parte i rincari certi dell’addizionale Irpef in molte Regioni e i timori che la legge di stabilità porti con sé almeno quattro miliardi di tassazione aggiuntiva (smentita dal premier Letta). Dall’altra i tagli del tutto apparenti della spesa pubblica, strada maestra per contenere l’aumento del debito dello Stato.

La sicurezza dei conti sembra una strada a senso unico, lastricata dal 44,3% di pressione fiscale e priva di bocchi. Da decenni ci si culla nella finzione di ridurre i costi della macchina pubblica che invece ha superato gli 800 miliardi nel 2012 ed è stata ancora superiore l’anno scorso. Il tanto citato esempio del buon padre di famiglia come fonte ispiratrice delle politiche economiche è un’illusione: in una situazione di crisi le famiglie tagliano i bilanci, come mostrano tutti i dati dei consumi degli ultimi anni. L’amministrazione pubblica no, non è in grado di aggredire gli 800 miliardi di costi riducendoli anche solo di qualche punto percentuale (che varrebbe miliardi).

Lo stratagemma politico-dissimulatore si chiama taglio tendenziale: nel 2012 la spesa ha raggiunto gli 801 miliardi, prevista in aumento tendenziale a 814 miliardi nel 2013. La manovra del governo l’ha ridotta a 807,6 miliardi ma il taglio è solo apparente: nella realtà dei fatti il costo dello Stato aumenta di 6,6 miliardi, da 801 del 2012 a 807,6 dello scorso anno. Il paese spende di più per mantenere gli stessi apparati. E non riduce il debito dello Stato, il terzo nel mondo, che oggi sfiora 2100 miliardi di euro e costerà più di ottanta miliardi di interessi sottratti a investimenti e ad impieghi più condivisibili, come la messa in sicurezza del territorio. O la riduzione della pressione fiscale.

L’ultimo documento economico finanziario non lascia grandi speranze nemmeno per il futuro: da oggi al 2017 le entrate italiane (all’incirca le tasse pagate dai cittadini) aumenteranno 99 miliardi rispetto al 2012 e serviranno solo parzialmente a mantenere i conti dello Stato in ordine (18 miliardi), mentre la maggior parte delle risorse sarà necessaria a pagare l’aumento dei costi dell’elefante pubblico. La metà dei quali è imputabile alle Regioni, che raccolgono il 15% di tasse e imposte ma spendono più del 50% delle entrate totali.

I risultati fanno rabbrividire: le previsioni indicano nel 2022 l’anno nel quale verrà recuperato il livello di ricchezza complessiva dell’Italia del 2007, vigilia della crisi finanziaria mondiale. La ricchezza individuale invece verrebbe recuperata nel 2024 mentre il numero dei disoccupati tornerebbe ai livelli pre-crisi (1,5 milioni) solo nel 2025. Come dire quindici anni perduti, ragazzi diventati adulti nella precarietà, famiglie in crisi, povertà in aumento. Aziende in affanno. Allora serve una spending review vera, rapida e incisiva. Le forbici sui costi della politica evocate da Matteo Renzi si muovano anche tra i 60 miliardi di sprechi e ruberie stimate dalla Ue come risultato della corruzione negli apparati dello Stato. Dismissioni e privatizzazioni siano meno timide. Il rigore fatto di nuove tasse e vecchi sprechi lo conosciamo già, lasciamolo al passato.