È un bel rebus quello che a sorpresa si è materializzato in Giappone con i dati di stanotte sulla ricchezza prodotta nel trimestre tra luglio e settembre: la flessione del Pil dello 0,4% ha contraddetto le ottimistiche stime della vigilia e sommata alla caduta del trimestre precedente ha portato il paese del Sol Levante in recessione tecnica come i più derelitti paesi del mondo sviluppato.  La politica super-espansiva del premier Shinzo Abe e del governatore della Banca centrale giapponese, Haruhiko Kuroda, subisce una significativa caduta di credibilità che incrina pure qualche certezza più generale sulle strategie monetarie e sulle capacità della finanza di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Il Giappone continua a inondare i propri mercati con ottantamila miliardi di yen sulla base del cosiddetto Abenomics, cioè del piano di macroeconomia voluto dal primo ministro per combattere la decennale depressione: si fonda su politica monetaria, fiscalità e strategie di crescita. Pur in presenza di un debito pubblico superiore al 200% della ricchezza prodotta in un anno dal paese. I risultati sono però tutt’altro che univoci soprattutto sul versante dei bilanci familiari, con la caduta del potere d’acquisto delle buste paga legata anche alla crescita dell’inflazione e all’aumento delle imposte.

Così la politica monetaria espansiva che tanti risultati positivi ha dato negli Stati Uniti o in Gran Bretagna non sembra funzionare altrettanto bene in estremo oriente, segno che la ricetta non può essere applicata allo stesso modo in ogni paese malato. Ma non si vive di solo quantitative easing così come, sul versante opposto della teoria economica, non si vive di sole politiche di austerità. La battuta d’arresto dell’Abenomics è destinata a ravvivare le dispute tra i samurai dell’espansionismo monetario e gli ayatollah del rigore: può uno Stato crescere con la finanza ma scansando le riforme e indebolendo le capacità di acquisto delle famiglie? Riuscirà il Sol Levante a evitare la trappola del proprio debito e sconfiggere la stagnazione? E dall’altro capo del mondo, l’Italia che non risana sarà in grado di continuare a pagare tra 60 e 80 miliardi l’anno di interessi sui titoli pubblici senza svuotare il portafoglio dei suoi cittadini e senza intaccare le possibilità di crescita?