Si chiama bad bank, banca cattiva. Nonostante la pessima fama serve a ripulire i bilanci degli istituti di credito e torna tra le ipotesi operative alla vigilia dell’esame della Bce sui requisiti delle 128 principali banche dell’euro, che inizierà il mese prossimo: un appuntamento temuto a Roma, come a Madrid o a Berlino. “Le banche deboli devono uscire dal mercato, creano tensione e non fanno prestiti” avverte senza fare sconti il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi.

Sugli sportelli italiani pesano più che nel resto d’Europa incagli e i crediti deteriorati, tanto da consigliare al Governatore di Bankitalia Ignazio Visco di superare un tabù e prospettare l’idea “ambiziosa” sino a ieri solo sussurrata: creare, grazie anche al denaro pubblico, la “banca cattiva” dentro la quale accumulare tutti gli attivi problematici del sistema, liberando dai bilanci degli istituti le risorse da destinare a un maggior sostegno dell’economia reale. Un po’ come accadde in Irlanda (2009) e alla Spagna nel 2012, quando il fondo salva-Stati finanziò con 41,3 miliardi di euro una società nella quale confluirono tutte le attività tossiche.

Lo scorso anno i prestiti degli istituti di credito italiani superavano i 1.700 miliardi, il 51% dei quali era destinato alle imprese e il 28% al settore edilizio, il 20% tra mutui per la casa e al consumo. In questa montagna più di 250 miliardi mostrano sofferenze: la ripresa resta fragile, famiglie e aziende continuano a faticare nel pagamento regolare dei debiti. In Spagna i miliardi sono 184, in Francia 171, nel Regno Unito 146, oltre 7.000 (si stima) negli Usa.

Il credito problematico crea dunque ulteriori difficoltà alle banche, che dovranno anche mantenere rapporti più rigorosi tra patrimonio e attività secondo i nuovi parametri: occorrono soldi freschi, fra 32 e 42 miliardi a giudizio l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Una strada per racimolarli è quella dell’aumento di capitale già decisa da Mps (3 miliardi), Banco Popolare (1,5 miliardi), Bpm e Carige ma è una via problematica da percorrere per gli istituti di minori dimensioni. L’alternativa fu sperimentata alla fine degli anni Novanta per il Banco di Napoli, proposta oggi da Unicredit e Intesa Sanpaolo: i due giganti del credito hanno scorporato le attività tossiche e stanno trasferendo a investitori internazionali le parti rischiose del portafoglio crediti. Ma loro se lo possono permettere mentre la bad bank di sistema, per tutti gli istituti che ne abbiano bisogno, potrà funzionare solo con un sostegno pubblico che appare problematico da decidere e da quantificare.