ADESSO che finalmente non sentiremo (forse) più parlare di trivelle è il caso di ribadire per l’ennesima volta che lo strumento dei referendum abrogativi è assolutamente inutile, che già in passato ha dimostrato come non incontri l’interesse degli elettori e faccia spendere (aspetto questo non proprio di poco conto) un mucchio di soldi che invece potrebbero essere impiegati in modo più intelligente. Speriamo sia l’ultima volta.
Marco B. Milano

ORMAI DA 25 ANNI a ogni referendum si presentano non due ma tre schieramenti: le truppe del sì, quelle del no, e quelle del “rimango a casa”. Stavolta sulla terza posizione si era schierato addirittura il presidente del Consiglio Renzi il quale a urne chiuse (e a quorum mancato) non ha perso l’occasione di sottolineare proprio i costi dell’operazione: circa 300 milioni di euro. Una cifra significativa, non ci sono dubbi: a conti fatti, per esempio, si scopre che abbiamo speso soltanto per fornire i seggi di matite copiative la bellezza di 123.500 euro. Ai quali bisogna aggiungere 66mila euro per la manutenzione degli apparati hardware del Ced elettorale e 90mila euro per il servizio di supporto specialistico sui software. Si dirà: sono i costi ordinari della democrazia. Tutto vero. Ma forse sapere che abbiamo speso così tanto avrebbe potuto spingere qualcun altro a andare a votare. Se non per la bontà (più o meno discutibile) del quesito referendario, almeno per non buttare i soldi dalla finestra. [email protected]