Alessandro Farruggia
27 APRILE _ A volte ritornano. E’ salpata oggi dal cantiere navale di San Pietroburgo, la controversa centrale nucleare galleggiante russa ‘Akademik Lomonosov‘. L’impianto sarà rimorchiato dal luogo dove è stato costruito, attraverso il Mar Baltico e intorno alla punta settentrionale della Norvegia, fino alla gelida Murmansk, la città russa affacciata sul mar Artico. Là i suoi due reattori saranno caricati con il combustibile nucleare. Originariamente Rosatom (impresa statale russa che si occupa di nucleare) aveva previsto di caricare i reattori nel cantiere navale di San Pietroburgo, a soli 2300 metri dalla cattedrale di San Isacco, in una metropoli abitata da 5 milioni di persone. Ma una petizione popolare, e le pressioni del governo della Norvegia, di quello danese e di quelli di altri paesi Baltici hanno consigliato Rosatom di soprassedere spostando l’operazione di carica del combustibile – sempre rischiosa – da San Pietroburgo alla più remota Murmansk, che comunque è una città di 300 mila abitanti. Da lì il reattore galleggiante sarà trainato per 5 mila chilometri nel mare Artico – oggi in estate libero dai ghiacci grazie al cambiamento climatico – sino al remoto porto di Pevek, nella regione siberiana della Chukotka, dove dal 2019 fornirà elettricità ai 5 mila abitanti e alle vicine miniere di carbone. Una centrale nucleare per estrarre carbone, piazzata in un ecosistema estremamente fragile è davvero un paradosso unico.
La Akadimk Lomonosov è lunga 144,4 metri e larga 30 e ha una stazza di 21.500 tonnellate. Ha due reattori nucleari navali KLT40 modificati, reattori ad acqua pressurizzata (PWR), in grado di fornire 70 MW di elettricità o 200 MW di calore. Meno di dieci volte di una modesta centrale a turbogas. Quanto un parco eolico. I reattori sono prodotti da una sussidiaria di Rosatom, la OKBM Afrikanton di Nizhniy Novgorod e sono stati assemblati dal Nizhniy Novgorod Research and Development Institute Atomenergoproekt.
Le centrali nucleari galleggianti non sono una novità. I primi a ipotizzarli e a realizzarli sono stati gli americani. A partire dal 1963 realizzarono l’MH-1A, battezzato Sturgis dal generale Samuel D. Sturgis, un reattore ad acqua pressurizzata che venne costruito in una nave Liberty convertita e faceva parte di un piano US Army Nuclear Power Program, che mirava a sviluppare piccoli reattori nucleari per generare energia elettrica e riscaldamento principalmente per siti remoti e relativamente inaccessibili. Dopo l’entrata in fiunzione nel 1967, MH-1A è stata trainata nella zona del Canale di Panama, dove ha fornito 10 MW di energia elettrica dall’ottobre 1968 al 1975. Il suo smantellamento è iniziato nel 2014 e si prevede che sarà completato in meno di quattro anni.
I russi hanno inziato a pensarci negli anni novanta, rispolverando un progetto degli anni ’70 per un grosso rompighiaccio a propulsione nucleare e piazzandoci due reattori di quelli da 171 MW utilizzati sui roimpighiaccio classe Tamyr o sulla portacontainer a propulsione nucleare Sevmorput. Solo nel 2002 l’ex ministero dell’Energia atomica e l’Agenzia per la costruzione navale russa hanno elaborato congiuntamente un piano di progetto per la FNPP. Nel 2006, l’agenzia succeduta a Minatom, la Rosatom, ha firmato un contratto con l’impresa navale Sevmash, con sede a Severodvinsk. Nei prossimi dieci anni erano previste la costruzione di sette centrali nucleari galleggianti. Secondo Rosatom, “una serie sufficientemente ampia di reattori galleggianti era l’unico modo per garantire al progetto le sue prospettive economiche, comprese quelle di vendere tali stazioni a potenziali clienti all’estero”. Committente e cantiere hanno però avuto problemi e su decisione del governo, nel 2008, la costruzione è stata trasferita in un cantiere navale di San Pietroburgo, il Baltiisky Zavod, dove il 30 giugno 2010 lo scafo della nuova FNPP Akademik Lomonosov è stato solennemente varato. Da allora ci sono voluti altri 8 anni per completarla (e lo scorso anno nella nave in costruzione c’è stato anche un incendio).
Per gli ambientalisti norvegesi dell’associazione Bellona (da sempre attiva sul tema del nucleare russo), e quelli di Greenpeace, il progetto è pericoloso e troppo caro. “È opinione comune _ osserva Bellona _ che quanto più piccole sono le dimensioni di un progetto, tanto maggiore è il controllo che il cliente ha sui costi del progetto stesso. In pratica, tuttavia, il costo del progetto della FNPP che la Russia sta attualmente portando avanti è passato dai 150 milioni di dollari dichiarati dalla Minatom nel 2001 ai 550 milioni di dollari del 2010 (all’epoca, del costo totale della FNPP, pari a 16,5 miliardi di RUR ai tassi di cambio del 2010, 14,1 miliardi di RUR avrebbero dovuto essere spesi per la centrale stessa e i restanti 2 miliardi di RUR per l’ingegneria idraulica e gli impianti a terra) a 1,2 miliardi di dollari a fine 2013, quando l’ordine è stato completato, a circa l’80%. In altre parole, il costo del progetto è aumentato di otto volte nel corso di dodici anni”. Un classico per gli impianti nucleari.
“Se lo sviluppo del progetto non sarà bloccato – denuncia Greenpeace – si rischia una Chernobyl sul ghiaccio. Reattori nucleari galleggianti nell’Artico pongono una ovvia minaccia ad un ambienta fragile, che è già sotto enorme pressione da parte del cambiamento climatico. Le caratteristiche della Lomonosov, con la sua chiglia piatta e la mancanza di propulsione, la pongono a rischio rovesciamento e affondamento in caso di forte maltempo, e lo porrebbero anche di più se il progetto fosse venduto all’estero, magari in paesi a rischio cicloni, tsunami o tifoni”. Un rischio non improbabile perchè secondo Rosatom ben 15 Paesi hanno mostrato interesse. Tra questi Cina, Indonesia, Malesia, Algeria, Namibia, Capo Verde e Argentina. Tra i paesi interessati anche Singapore e il Bangladesh.
E la Cina sembra davvero determinata a dotarsi di centrali nucleari galleggianti. La China National Nuclear Power (CNNP) ha annunciato l’intenzione di costruire nei prossimi anni, a partire dal 2020, ben 20 centrali nucleari galleggianti che vorrebbe piazzare nel Mar Cinese meridionale, dove il governo di Pechino ha avviato una espansione contestata dai paesi vicini (Vietnam, Taiwan, Brunei, Filippine e Malesia) e dagli Stati Uniti e dove le centrali nucleari galleggianti sarebbero usate per fornire l’energia necessaria all’estrazione di olio e gas e fornire energia e desalinizzare l’acqua per le isole artificiali del Mar Cinese meridionale alle quali i cinesi stanno già oggi lavorando. Del progetto si occuperà nuova società con sede a Shanghai alla quale partecipano Hejiang Zheneng Electric Power, Shanghai Guosheng Group, Jiangnan Shipyard, Shanghai Electric e CNNP (controllata dalla China National Nuclear Corporation). Avrà un capitale sociale di 150 milioni di dollari.
Wang Yiren, vice-direttore dell’Amministrazione statale per la Scienza, la Tecnologia e l’Industria per la Difesa Nazionale, ha detto all’inizio del 2017 che “l’espansione delle capacità di energia nucleare della Cina è una parte vitale del suo piano quinquennale”. Il paese avrà come priorità lo sviluppo di una piattaforma galleggiante di energia nucleare, al fine di sostenere le sue attività offshore di estrazione di petrolio e gas, e la sua presenza nelle isole Paracel e Spratly. Nel 2015 la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, il principale responsabile della pianificazione economica del paese, ha approvato il progetto ACPR50S del China General Nuclear Power Group (CGNP), controllato dallo Stato, e i piani per il reattore galleggiante ACP100S della China National Nuclear Corp. Ora si tratterà di sceglere quale modello di reattore utilizzare e avviare la costruzione.
Non solo Russia quindi. Il progetto centrali nucleari galleggianti va avanti su binari paralleli, nonostante i forti costi e i grandi rischi.