NON SOLO ramarri, cigni e cardellini. Il mondo dell’arte è pieno (anche) di granchi. «Già, perché nessuno è immune dal rischio di sbagliare, quando si tratta di attribuzioni», sorride lo storico dell’arte, nonché direttore della Galleria degli Uffizi, Antonio Natali. «Un caso per tutti? Naturalmente le false teste di Modigliani, nell’84 – ricorda Natali – . In quel caso a pagare sono stati soprattutto i miei colleghi, mentre Federico Zeri, con il sigaro che gli penzolava dalle labbra commentò laconico: “Si vedeva subito che erano dei mamozzi”. Scivolate fatte non tanto per lucro o malafede, quanto per la voglia di apparire, la caccia allo scoop». Febbre contagiosa anche per chi vive a stretto contatto con i capolavori e ha pochi legami con le cose terrene. Lo sa bene Mina Gregori, laurea a Bologna con Roberto Longhi e carriera universitaria a Firenze, dov’è stata docente di Storia dell’arte Moderna, la maggiore esperta di Caravaggio vivente: anche lei, che ha al suo attivo attribuzioni come “Il Ritratto di un Cavaliere di Malta” della Galleria Palatina di Palazzo Pitti e del “Sacrificio d’Isacco”, oltre al ben noto “Ragazzo morso da un ramarro”, ha dovuto affrontare tempeste legali legate alle attribuzioni, senza dimenticare che “l Cavadenti” della Galleria Palatina – attribuito da Francesco Scannelli a Caravaggio già nel 1657 – (tesi fortemente sostenuta da Mina Gregori), tutt’ora stenta a essere accettato senza riserve. Mentre il “Martirio di Sant’Orsola”, capolavoro assoluto del Merisi, è stato attribuito da Vincenzo Pacelli, caravaggista recentemente scomparso e autore di numerose pubblicazioni sul grande pittore, che riuscì ad assegnare l’opera al maestro lombardo grazie alle preziose carte ritrovate nell’archivio Doria d’Angri insieme con il filologo Giorgio Fulco.
«OCCORRE fare una grande attenzione, soprattutto se i denari spesi non sono i propri, ma quelli dello Stato», spiega l’ex ministro per i Beni culturali, critico, storico dell’arte e oggi direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci. «Le cautele non sono mai abbastanza, il “granchio” può essere sempre in agguato – riprende Paolucci – . Ma, anche alla luce di quanto è accaduto per le due tele firmate da Paul Gauguin e Pierre Bonnard, stimate svariati milioni di euro e passate sotto il naso di non so quale soprintendenza senza essere riconosciute, occorre essere capaci di riconoscere qualcosa di buono, quando capita». «Nel corso della mia lunga carriera ho fatto moltissime acquisizioni per lo Stato italiano – conclude il direttore dei Musei Vaticani – : considero ottimi investimenti l’opera giovanile di Paolo Uccello “Santa Monaca”, già appartenuta alla collezione Contini Bonacossi nel 2001 e il “Doppio ritratto” di Palma il Vecchio nel 2006. All’epoca i soldi c’erano, oggi ce ne sono pochi: comunque l’iter per vendere un capolavoro, o quello che si crede tale, è esattamente quello intrapreso dall’ex operaio che ha proposto il Gauguin alla “sua” soprintendenza. Spetta poi alle competenze del singolo funzionario, che deve magari avvalersi della collaborazione di uno storico dell’arte esperto dell’autore in questione, nel caso non ne sappia abbastanza, riconoscerne il valore». Spesso fra le polemiche: com’è accaduto con la “Sgarbata” dei giorni scorsi: «La “Tavola Doria”, non è un capolavoro, non è opera di Leonardo da Vinci né di un maestro toscano del ’500. È una ciofeca», il commento di Vittorio Sgarbi all’arrivo a Firenze della discussa copia del capolavoro perduto della “Battaglia d’Anghiari”.

E ANCORA non si sono evaporati i fumi velenosi esalati dall’acquisizione del Crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e acquistato nel 2008 dal ministero per i Beni culturali, allora guidato da Sandro Bondi: vicenda spinosa, finita sotto il giudizio della Corte dei Conti, che arrivò a parlare di “danno erariale”, citando in giudizio i vertici del ministero che si occuparono della transazione. Secondo la giustizia contabile, la piccola scultura lignea, infatti, non varrebbe i tre milioni e 200 mila euro pagati, ma al massimo 700 mila. Un granchio “tutto italiano”’, come commentano con ironia i giornali stranieri.
Fra le amare delusioni si arriva al 2012, con l’attribuzione al giovane Merisi di 96 disegni del Fondo Peterzano, custodito nel Castello Sforzesco, a Milano, realizzati – secondo gli studiosi Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli – durante il periodo di apprendistato di Caravaggio nella bottega del maestro. Fin da subito la maggioranza degli addetti ai lavori storse il naso davanti alla notizia del “sensazionale ritrovamento”. Puzzo di granchio?
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