Articolo pubblicato il 18 settembre 2014 su QN (Carlino, Nazione e Giorno)
La campana da morto sulle province sembra non rintoccare più. E la legge Delrio che doveva abolire questi enti, alla prova delle elezioni (dal 28 settembre al 12 ottobre) mostra che le province sopravvivono a loro stesse. A sparire, infatti, c’è solo il voto dei cittadini che lascia il posto a un’elezione di secondo livello: sindaci, consiglieri comunali e provinciali si scelgono tra loro, dando il via, così, al valzer delle alleanze. Risultato: un pasticcio che porta alla più classica spartizione delle poltrone seguendo la logica della ‘grande ammucchiata’. Pd e Forza Italia resta l’alleanza più gettonata, ma in certe province in alcuni mega-listoni confluiscono anche 5 Stelle, Ncd e Lega. Altero Matteoli, deus ex machina delle alleanze forziste, sintetizza: «Fare patti con il Pd? Beh, è il male minore. Dobbiamo far fronte comune contro il nemico». Il nemico, ovviamente, è il Movimento 5 Stelle. Matteoli lo ammette candidamente: «Certo, si tratta di una spartizione di poltrone sulla base di un certo realismo politico. Non possiamo mica rischiare un’altra Livorno. E, per evitare il peggio, dobbiamo impegnarci affinché in Provincia vinca il Pd. Il male minore, appunto».

E se nell’ex roccaforte Pci il neosindaco pentastellato Filippo Nogarin ha rinunciato alle elezioni provinciali, seguendo il diktat di Grillo che ha imposto ai suoi «di non presentare le proprie candidature», a Parma le elezioni hanno rischiato di far espellere il sindaco grillino dal Movimento. Federico Pizzarotti, infatti, dopo aver annunciato la sua candidatura e l’asse con Pd e FI scatenando l’ira di Grillo, ha poi fatto marcia indietro facendo vacillare l’alleanza, mentre il Pd resta spaccato tra i pro listone e i dissidenti. «Non mi candido — ha detto ieri sera Pizzarotti — le scollature nei democratici mi hanno fatto propendere per non andare avanti». Il sindaco 5 Stelle di Comacchio, Marco Fabbri, invece, si è tuffato nella lista unica a maggioranza Pd che sostiene come presidente il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani. La deputata emiliano-romagnola pentastellata Giulia Sarti — critica sul niet di Grillo alla candidatura di Defranceschi in Regione perché indagato nell’ambito dell’inchiesta ‘spese pazze’ — commenta così: «Non è una guerra di poltrone, ma è la voglia di contare qualcosa. Lasciare tutto in mano agli altri dà noia…».
I democratici, freschi di nuova segreteria ‘plurale’ e senza un delegato ufficiale agli enti locali (l’annuncio verrà dato oggi, ndr), hanno preferito non commentare. Ma basta scorrere la mappa delle province al voto (64 presidenti da eleggere e 760 consiglieri) e quello delle città metropolitane (otto presidenti e 162 consiglieri) per rendersi conto che le poltrone, benché diminuite (da 2.500 a 986) e meno pesanti, continuano a fare gola.
In Calabria domina il cosiddetto «accurduni» e a Vibo Valentia renziani e azzurri vanno a braccetto con Ncd e Fratelli d’Italia. Il ‘partito unico’ Pd-FI va forte anche in Puglia. A Brindisi è praticamente fatta l’intesa: presidente della Provincia al Pd, vice ai berluscones, mentre a Taranto si ragiona sullo schema inverso (presidente agli azzurri, vice ai dem). Stessa musica anche nelle città metropolitane (Genova e Torino) dove s’inserisce anche Ncd. Del resto, coi cugini, l’azzurro Matteoli sta cercando una sintesi: «Stiamo lavorando per costituire una coalizione per le regionali».

Rosalba Carbutti

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