Due pessimi segnali: i leader balbettano, la discussione evita con cura l’aspetto strategico-militare del problema per abbracciare invece l’ambito filologico. E allora, per cominciare: che fine ha fatto Angela Merkel? Se, con Barak Obama, l’ex gendarme planetario statunitense vede nell’Isis nientemeno che il diavolo fatto serpente ma rifiuta di schiacciargli la testa, la cancelliera tedesca rinuncia platealmente allo scettro di leader d’Europa dopo averlo vigorosamente impugnato durante la crisi economica. Cosa pensi la Merkel dell’attacco a Parigi e delle conseguenti, necessarie, reazioni, non è chiaro. E’ invece noto che anche stavolta la cosiddetta Europa non sarà in grado di mostrarsi unita. La Francia è isolata, l’appello di Hollande alla “solidarietà” attiva prevista dal Trattato di Lisbona in caso di attacco ad uno Stato membro è rigettato: si affronterà la questione non col metodo comunitario ma con quello intergovernativo. Ovvero, accordi bilaterali tra Stati sovrani. Un’ulteriore conferma del fatto che l’Europa è un’astrazione, un’utopia. Una cosa inesistente. Assistiamo così sconcertati a un dibattito lunare. Matteo Renzi, e come lui la gran parte dei capi di Stato e di governo europei, rifiuta prudentemente di usare la parola “guerra”. Parola che ieri troneggiava inesorabile sulla prima pagina dell’Unità, giornale del Pd, non essendoci in effetti sinonimi più dolci che si adattino alla situazione. Del resto, se non fosse una guerra, cosa sarebbe? Uno scherzo? Cinque giorni fa, dopo aver dichiarato di volerci annientare, un sedicente Stato islamico ha massacrato 130 persone con un attacco concentrico nel cuore del cuore d’Europa, Parigi, e noi stiamo ancora qui a disquisire se si tratti effettivamente di un conflitto tra Stati o di chissà cos’altro. Una situazione paradossale. Hanno ammazzato o ferito quasi cinquecento europei nel salotto di casa nostra e noi non dovremmo affondare i nostri scarponi nel loro deserto? Non è che uno abbia piacere a recitare la parte del guerrafondaio, ma la realtà è questa e negare la realtà non è mai un buon modo di procedere. Si preferisce invece prender tempo. E mentre il tempo corre l’Isis si rafforza. Ormai controlla un territorio grande quanto il Regno Unito e se gli effettivi del Califfo che pochi mesi fa conquistarono la libica Sirte erano duecento, ora se ne contano cinquemila. Abbiamo paura, e si capisce. Abbiamo paura di fare una guerra senza poterci nascondere dietro i marines americani. Abbiamo paura di fare una guerra sapendo che solo il 10% dei cittadini l’approverebbe. Abbiamo paura di fare una guerra perché temiamo che un nostro impegno diretto aumenterebbe il rischio di attentati in Patria. Abbiamo paura di fare una guerra perché abbiamo paura della parola guerra. Parola di cui non conosciamo più il senso. Sì che ci scopriamo oggi nella condizione d’animo tracciata da Winston Churchill nel ’38 osservando l’indifferenza con cui gli europei prendevano atto dell’occupazione nazista della Cecoslovacchia: “Ci troviamo di fronte alla penosa alternativa tra guerra e vergogna… Ho la sensazione che sceglieremo la vergogna per ritrovarci poco dopo in guerra in condizioni più avverse di oggi”. Andò proprio così.