Scendere dalla ruspa, appendere la maglietta nell’armadio dei ricordi di gioventù, indossare la giacca e persino la cravatta: vasto programma per uno che all’immagine della ruspa rottamatrice e allo stile “volgare” deve il proprio successo. Ma il successo non ha accecato Matteo Salvini. Caso più unico che raro per un leader politico, il segretario della Lega è infatti giudice obiettivo di se stesso, perciò si rende conto che qualcosa gli manca per ambire seriamente alla premiership. Quando, mesi fa, Silvio Berlusconi gli ha garbatamente manifestato le proprie riserve sulla sua candidabilità alla guida del governo, Salvini ha annuito. Quando, il 23 luglio, sul palco della festa leghista di Cervia gli abbiamo chiesto se davvero pensa, così com’è, di aver i numeri per essere eletto premier ha mostrato di avere dubbi pari almeno ai nostri.
Ad oggi, se si dovesse votare nel 2016 Matteo Salvini non sarebbe il candidato premier della Lega. Per tenere unita la coalizione di centrodestra e avere più chance di successo cederebbe il passo a Roberto Maroni. Si dovesse invece votare alla scadenza naturale della legislatura, ovvero nel 2018, tra i possibili candidati premier figurerebbe anche Luca Zaia. E’ lo stesso Salvini a volerlo. E quando, nei giorni scorsi, si è trovato davanti il gotha dell’imprenditoria nazionale riunito a Cernobbio ha avuto conferma dei propri limiti. Essendo banditi gli slogan, gli argomenti non l’hanno soccorso.
Intendiamoci, si può essere al tempo stesso distruttivi e costruttivi, arrembanti in piazza e riflessivi nel Palazzo. Ma il lato costruttivo e riflessivo di Salvini, se c’è, tarda a manifestarsi. «Candidando Maroni avrei il sicuro appoggio di Berlusconi, il centrodestra avrebbe probabilmente più chance di vittoria e io mi manterrei le mani libere rimanendo a capo della Lega», così, con inedita capacità autocritica, ragiona Matteo Salvini. Il quale si fida assai di alcuni giovani consiglieri (Alessandro Morelli e Luca Morisi) che lo esortano a rimanere in sella alla ruspa, ma da un po’ di tempo a questa parte ascolta con interesse anche chi (Giancarlo Giorgetti, Gianni Fava e Gianluca Pini) lo esorta a scendere.
La manifestazione organizzata lo scorso febbraio ne ha conclamato il successo, ma l’ha chiuso in un ghetto politico al fianco di Giorgia Meloni e dei camerati di Casapound. Da allora, pur senza rinunciare alle dichiarate simpatie per Putin, per accreditarsi Salvini ha trovato un canale di dialogo con l’ambasciata americana, ma non per questo ha cambiato stile. Non l’ha cambiato perché non è affatto sicuro di essere in grado di farlo. Ad oggi, dunque, Matteo Salvini si è tirato fuori dalla premiership. Ma non è del tutto escluso che possa cambiare idea. Lo sapremo tra meno di due mesi. Il 6 e 7 novembre la Lega darà infatti vita a una serie di appuntamenti in tutt’Italia che culmineranno con una manifestazione, che si vuole oceanica, l’8 in piazza Maggiore a Bologna. Obiettivo: esibire un programma di governo. O qualcosa che ci assomigli. Niente bandiere di partito, ad essere sventolata dovrà essere la sintonia con il maggior numero possibile di associazioni imprenditoriali. Se la manifestazione riuscirà e se il collegamento con la società civile e i suoi interessi organizzati sarà reale ed evidente, Matteo Salvini verrà incoraggiato dai suoi consiglieri più “costruttivi” a cambiare passo e stile. In caso contrario, verrà confermato l’orientamento attuale: il leader della Lega, colui che ha rimesso al mondo un partito dato per morto portandolo ad un inedito 16% nei sondaggi, non sarà il candidato della Lega.