Cinque anni fa, la prima Lepolda renziana servì a marcare la differenza: esibire il talento e la modernità di un giovane aspirante leader a fronte di un partito vecchio e ripiegato sul proprio passato. Funzionò alla perfezione, perché perfettamente attinente alla realtà delle cose. Non era un bluff, non era una messinscena. Era vero che Matteo Renzi rappresentava un modo diverso di intendere la sinistra e la politica, era vero che il Pd dei Bersani e dei D’Alema proprio per questo gli chiudeva le porte in faccia costringendolo nel ruolo del rivoluzionario giacobino che dà l’assalto alla Bastiglia. Così anche nel 2011, nel 2012 e nel 2013. Nel 2014 tutto era cambiato. Presa la Bastiglia, il Principe fiorentino si presentò alla Leopolda vestendo sia panni del segretario sia quelli del premier. “E’ solo l’inizio”, fu il titolo scelto tra minaccia e speranza. E già in quell’occasione si colse un lieve stridore: la Leopolda rimaneva il luogo della modernità e del cambiamento, il partito rimaneva il luogo del passato e della conservazione. Eppure, da quasi un anno segretario del Partito democratico era ormai il medesimo Renzi. Ancor più stridente appare dunque la Leopolda attuale. Che infatti passerà alla storia come la più difficile delle sei. Mentre l’anno scorso il premier conduceva il suo show in una scenografia che evocava il mitico garage di Steve Jobs, in piazza la Cgil manifestava contro la riforma del Lavoro e quel dissenso così palese da parte di un sindacato piuttosto impopolare poiché considerato sinonimo di conservazione inverava la narrazione renziana: un leader modernizzatore che si scontra con le forze della reazione. Stavolta è diverso. Stavolta, mentre mezzo partito è riunito a Roma per i fatti propri, a manifestare il dissenso sono i risparmiatori “truffati” dalle quattro banche fallite. Una delle quali, Banca Etruria, ebbe al vertice il padre della renzianissima Maria Elena Boschi, favorito in quanto amministratore uscente da un atto del governo. A torto o a ragione, sull’immagine immacolata e rivoluzionaria di Renzi si allunga così l’ombra della più impopolare tra le caste: i banchieri. Grande è dunque l’imbarazzo, sfavorevole il contesto.

Dopo due anni di amministrazione del potere, il premier-segretario non è riuscito a cambiare né il partito né l’Europa, come pure aveva entusiasticamente promesso. Quanto all’Italia, qualche cambiamento c’è stato, ma non viene percepito a sufficienza. Il motivo è semplice: passando dalla fase della conquista a quella della gestione del potere, Matteo Renzi non ha mutato né passo né stile. Dal punto di vista politico, eccezion fatta per la propria immagine, ha costruito poco. Ha esasperato la diffidenza nei confronti dei suoi sostenitori, ha perso per strada molti fedelissimi e, salvo rare eccezioni, chi pure continua a stargli al fianco pare inesorabilmente relegato in ruoli gregari. O con me, sempre e comunque, o contro di me. Quel che è peggio, è che i sindaci sono spariti dall’orizzonte della Leopolda. E la loro scomparsa testimonia più di tante parole l’inconsistenza del Pd renziano. Renzi avrebbe dovuto “cambiare verso” alla politica, continua invece a coltivare la propria immagine impolitica, costretto dalla mancanza di alternative a cercare candidati sindaci tra i ranghi della società civile anziché tra quelli del “suo” Pd.