Non c’è gloria nel combattere contro le burocrazie pubbliche. Non c’è gloria nel fare a coltellate con i “compagni” del partito e non c’è gloria nell’inveire contro il sindacato. La gloria si conquista oltre confine e da sempre trova nella politica estera e di difesa il suo ambito più naturale. Se vuole la gloria, Matteo Renzi deve cercarla in Libia indossando la mimetica dell’esercito italiano. Stabilizzare la Libia significherebbe creare le condizioni per governare, o quantomeno arginare, il fenomeno migratorio, cagione di un allarme sociale che di certo diventerà il tema centrale delle prossime elezioni. Significherebbe arrestare l’avanzata dell’Isis, prevenendone il contagio ai paesi confinanti. Significherebbe assumere il controllo (indiretto, s’intende) di un territorio cui ci legano interessi consistenti e un legame storico ormai secolare. Significherebbe, infine, poter calare una carta ‘pesante’ sul tavolo di Bruxelles. E’ ragionevole immaginare che l’Italia si metta a capo di una forza militare multinazionale che calchi il suolo della nostra ex colonia? Parrebbe di sì, e invece no. Parrebbe di sì perché ipotesi simili vengono fatte filtrare ai giornali. E quando il capo dello Stato, l’assennatissimo Sergio Mattarella, paventa il rischio di una “terza guerra mondiale”, sembra alludere con biasimo all’iniziale inerzia militare europea di fronte al dilagare del Terzo Reich hitleriano. Si tratta invece di un gioco di specchi. Il tentativo, minacciandole, di piagare le fazioni libiche facendogli ingoiare il rospo di un governo unitario. Allo stato, la situazione è la seguente. La scelta, dell’Italia prima e delle Nazioni Unite poi, di individuare nel solo governo di Tobruk il proprio interlocutore legittimo si è rivelata sbagliata. Questo giornale lo scrive da tempo, a metà giugno lo ha scritto anche il New York Times: “E se stessimo negoziando con i libici sbagliati?”, titolava un editoriale di prima pagina. Diplomazia e intelligence stanno dunque lavorando affinché il governo di Tripoli, che controlla il territorio da cui partono i barconi carichi di immigrati e dove è radicata l’attività dell’Eni, diventi un interlocutore legittimo al pari di quello di Tobruk. Ma Tobruk invoca un governo di unità nazionale, di cui esige la guida. Tripoli, invece, preme per una soluzione federale. Di qui lo stallo. Perciò la comunità internazionale esibisce i muscoli. Ma dagli Stati Uniti all’Italia, passando per Francia e Regno Unito, nessuno ha davvero intenzione di usarli. Temono di finire impantanati come in Iraq. E a Tripoli l’hanno capito. Dopo una recente intervista in cui il nostro ministro degli Esteri non escludeva la possibilità di impiegare la forza in Libia, un uomo del governo tripolino ha commentato: “Ma Gentiloni crede davvero che siamo cretini? Sappiamo benissimo che non correrete mai il rischio di un’azione militare”. La gloria è tale perché presuppone dei rischi. Non volendo correrli, c’è solo da sperare nel miracolo dell’intelligence.