Firenze, 9 marzo 2014 – QUANDO si dice «allarme rosso», questa volta non si sbaglia. Rosso antico, per l’esattezza. È l’allarme (il più minaccioso) che suona ogni giorno per il premier Renzi dall’ala nostalgica del suo partito, quella che dice di guardare al socialismo nord europeo, ma poi si intenerisce per i fratelli separati a 5Stelle e per l’oltranzismo mediterraneo in salsa greca. E che soprattutto detesta lui, Matteo. Il Pd dei Bersani e delle Bindi, per intendersi, quello che ha perso nel partito, ma che è ben saldo e forte nella sua cittadella inespugnabile (per ora) del Parlamento. Dove il renzismo deve passare ogni giorno sotto le forche caudine, piegandosi, adattandosi e a volte inchinandosi. E’ successo clamorosamente con la riforma della legge elettorale, uscita intera dall’accordo con Berlusconi e arrivata dimezzata (e sgangherata) per il disaccordo dei deputati Pd. Una entrata a piedi uniti che ha immediatamente fatto capire quale sarà il ritmo delle prossime coregrafie: «Caro Matteo, o balli con noi, o finisce che vai sul serio a ballare con i lupi».

TRADOTTO in italiano. A Palazzo Chigi comandi tu, ma alla Camera e al Senato comandiamo noi. A due settimane dall’avvio del suo governo, tra le gioie dei vertici internazionali, e i dolori delle mille cose da fare e dei diecimila ostacoli che ogni giorno si frappongono; tra il tifo di chi pensa che siamo all’ultima spiaggia, e i primi mugugni di chi vorrebbe tutto e subito; tra le spine internazionali, e i cunei fiscali italiani che ognuno vorrebbe smussare a modo suo, Renzi ha potuto mettere a fuoco almeno una certezza assoluta: fino a quando non avrà dei gruppi parlamentari che viaggiano sulla sua stessa lunghezza d’onda, il progetto di rottamare il vecchio Paese e di costruirne uno nuovo, sarà esposto ad ogni tempesta. A rischio fallimento. Insomma: è vero che per sviluppare con serietà qualche riforma bisogna proiettarsi almeno fino alla fine della legislatura, nel 2018. Ma è altrettanto certo che sarebbero anni di calvario e di incompiute, e che prima si vota, meglio è per tutti. Persino con questa riformetta elettorale per la Camera e relativa non riforma per il Senato. Roba che se la faceva Calderoli andavano avanti per 30 anni a riempire le piazze a difesa della Costituzione. E che il suo Pd sia il peggior nemico di Renzi lo hanno capito al volo anche gli italiani. Domanda del più recente sondaggio: «Renzi chi deve temere di più…?» Il 34 per cento ha risposto Berlusconi, ma il 38% ha detto Pd! Intendendosi con questo, ovviamente, non il partito che è in rapida «renzizzazione», o gli enti locali nei quali, nelle primarie di oggi e nelle amministrative di primavera, verranno certamente scelti tanti sindaci di stretta osservanza «matteiana». No, quando si dice Pd, si pensa agli onorevoli che hanno riservato qualche applauso a Renzi e una standing ovation a Bersani; che cercheranno di non mollare lo scranno fino alla fine, perché sanno che non lo rivedrebbero mai più; che alle ultime analisi risultano avere un Dna incompatibile con quello del premier. Un problema genetico. Che rischia di far nascere mostri a sinistra (e non sarebbe una novità), ma soprattutto nel Paese. Che avrebbe invece bisogno di diventare finalmente normale.